Censura

La libertà non è in vendita: è in sharing economy

Libertà. Una parola con un significato ingombrante, pesante come pietra. Eppure trascurata, è scontato che si viva in uno stato di libertà.
E le imposizioni che da quattordici mesi subiamo ci fanno gridare allo scandalo, alla sottrazione delle nostre libertà, al non potere essere responsabili delle nostre scelte, delle nostre decisioni.

C’è da dire che anche il linguaggio mediatico non è stato particolarmente attento a evitare tale sgradevole sensazione: da mesi si sprecano parole come quarantena, coprifuoco, isolamento fiduciario, battaglia vaccinale, guerra contro il virus.
Un gergo decisamente militaresco, che riconduce ad una progressiva limitazione delle libertà, come nella migliore tradizione da caserma.

Eppure c’è un settore, legato a doppio filo con la libertà, che di quel linguaggio ha fatto larghissimo uso, nel quale l’Italia è ultimo paese in Europa, quarantunesimo nella classifica mondiale: l’informazione, la stampa.
Già nella costituzione più bella del mondo, si rilevano limiti rispetto alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (che sancisce il diritto di stampa senza alcuna limitazione). L’articolo 21 pone infatti i famosi paletti per “atto motivato dell'autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l'indicazione dei responsabili”. In sostanza, la libertà di stampa non è prevista per reati di opinione (per esempio l’apologia di reato) e in quelli contro la morale (altro argomento pruriginoso, in un paese che all’interno del suo territorio ospita lo Stato Vaticano). Poco da stupirsi, se consideriamo che la censura cinematografica è stata smussata solo l’altro ieri, complice proprio il Vaticano poc'anzi nominato in questo ritardo.

In Italia attualmente 20 giornalisti vivono sotto scorta, costretti a condividere spazi abitativi, tempo e affetti con carabinieri e poliziotti. Venti persone alle quali sono state negate libertà ordinarie come fare una passeggiata, andare a fare la spesa, frequentare amici. Che vivono costantemente sotto minaccia di morte.
Altre libertà vengono negate, non necessariamente da uno stato di continuo pericolo, di costante rischio di essere uccisi. La libertà di espressione, spesso, è limitata proprio da coloro che dovrebbero difenderla più di ogni altro soggetto coinvolto.

E la limitazione ha il nome della censura e del salario sottostimato, che consente una sorta di “ricatto” economico al quale ben pochi lavoratori nel settore dell’informazione possono opporsi. Perché purtroppo, nonostante le legittime ambizioni in campo professionale, sempre più frequentemente ci si ritrova a edulcorare, addomesticare certe posizioni per non entrare in conflitto con la linea decisa dal capo redattore, dal responsabile editoriale, dai finanziatori.

E quindi ci si ingegna a cercare di fare sintesi tra la propria interpretazione della notizia, del fatto, e le spesso intemperanti imposizioni in merito alle cose da dire e non dire, da scrivere o meno. Rinunciando a una fetta di libertà..

Giuseppe Diana © Riproduzione riservata

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