Riflessioni da un isolamento fiduciario
Fino a qualche giorno fa ero in quarantena fiduciaria, a causa di un contatto con un positivo avvenuto sul posto di lavoro: il protocollo prevede 14 giorni di isolamento e tampone molecolare.
Chiuso in casa per 14 giorni. Senza la possibilità di muoversi autonomamente, fare due passi, andare a comprare il pane. Diventi dipendente dagli altri, anche per una semplice spesa. E pensare che, stante la zona rossa, l’ultimo giorno di effimera libertà avevo stampato le nuove autocertificazioni e fatto il pieno all’auto, pronto ad affrontare una nuova normalissima settimana di lavoro.
In un attimo, dopo aver ricevuto la comunicazione dell’Ats che disponeva il periodo di limitazione dei contatti sociali, sono ripiombato all’anno scorso. A quella routine che speravo di aver dimenticato, ma che è rimasta ben radicata in uno spazio remoto della memoria, pronta a ferire di nuovo quando meno te l’aspettavi. In più, questa volta, routine associata alla paura, perché fino al tampone non sei certo di aver contratto o meno il virus, anche se non accusi alcun sintomo.
Le ore che sembrano macigni, i minuti lunghissimi, le sere interminabili. Addirittura mi mancano quelle code sulla 131 all’altezza del bivio per l’aeroporto, che incontro se parto con pochi minuti di ritardo.
Tra le riflessioni indotte dalla sedentarietà forzata, prepotente si fa avanti quella di profonda solidarietà a chi, in questa situazione, ci è immerso da mesi.
Le ragazze e i ragazzi delle scuole superiori, in numerose regioni, compresa la Sardegna, hanno pagato uno dei prezzi più alti dal punto di vista sociale.
In isolamento da marzo 2020, con una breve pausa estiva e poche settimane autunnali. Adattandosi a tutto: al tempo da reclusi, alle limitazioni a quella libertà basilare che consente di vivere le esperienze, obbligatorie e propedeutiche, tipiche di quell’età. Alla didattica a distanza, rinominata ora in un più accattivante didattica digitale integrata, dove di integrazione non se ne intravede nemmeno l’ombra.
Esposti a uno tsunami emotivo che non ha precedenti e che determina difficoltà psicologiche e sociali. Facili prede di ansia, stanchezza, apatia, irritabilità. Frustrati dalla complessità di seguire un percorso scolastico davanti a un video, privati del contatto tra pari, e spesso additati come responsabili della diffusione del contagio.
Ma l’avete mai preso un autobus che accompagna gli studenti medi a Cagliari? A Villacidro si è anche privilegiati e si trova posto a sedere, ma a San Sperate, per esempio, ti verrebbe da pensare che si chiamano pullman perchè letteralmente in inglese pull man, significa tirare l’uomo (l'antonomasia si riferisce invece al progettista americano G. M. Pullman, 1831-1897).
E nonostante questo carnaio, e tante altre occasioni (alcune sì provocate dai giovani, beninteso, come certi raduni abbastanza discutibili) fortunatamente sono stati tra i meno colpiti dai contagi.
Ecco, a loro dobbiamo tanto. E credo sia necessario chiedere scusa, perché privando loro delle esperienze fondamentali per una crescita matura, i baci, le carezze, le uscite, i primi giri in macchina, le prime libertà da addentare, dovremmo condannare noi stessi.
E ammettere che tra le responsabilità nella diffusione del virus, sicuramente ci sono le nostre uscite per spese effimere, c’è quella birra bevuta disinvoltamente davanti al bar o quella visita a casa di amici. Che francamente potevamo rinviare a tempi migliori.
Giuseppe Diana © Riproduzione riservata
L'immagine in evidenza è di Donald Tong, da Pexels