Cane Fantasma

 

Era accaduto che acànta acànta all’ovile de tziu Angionèddu, nel suo era stato trovato morto - una stocàda beni prantàda de lepa - tziu Barròsu, in tutto e per tutto su dìciu cosa sua. Da non stupirne nessuno e piangerne lo stesso, non fosse che presero a girare sulla zona voci inquietanti che la volevano infestata di spiriti maligni. E su prus arrabiàu, pròpriu cussu de tziu Barròsu, vagabondante sui vasti pascoli in cerca del proprio cuore. A restarsene da quel luogo ognuno alla larga, e più di ogni altro - neppure a dirlo - quel cuordileone di Pìsciapìscia.

«Mèllus una brebèi de mancu e una di’ de prus!» ribadiva.

Ma il vino pessimo servito al destino, lì all’osteria della vita, barcollò a lui pure appaiate disgrazie.

Era infatti accaduto che a tziu Angionèddu lo aveva colto la terzana, così arrabiàda da non potersi alzare dal letto. Pertanto questa volta gli toccò a Pìsciapìscia, volente o nolente, di recarsi al pascolo col grosso canelupo a fattu, chi no si scit mai.

«Maladìtta sìat sa sorti!» sacramentava. Che la notte intera dal paese lo si sentiva stonare a squarciagola il vasto repertorio dei mutètos, a esorcizzare tanto sa timodìa quanto i suoni e i rumori della campagna, che parevano stregati murrùngi di jànas.

Inevitabile a qualcuno venisse in mente de ddu fai brula.

Quella notte il vento Maestro si era camuffato di Tramontana - mrajàni - e soffiava benimìndi. Pìscipìscia, neppure a dirlo, se la dormiva nel pinnèto totu acarraxàu de sa manta manna de brebèi. E talmente forroscàva che per i due buontemponi fu un gioco da ragazzi soffiargli di sotto al naso il grosso cane da guardia. Erano gli amici di sempre, che il lupo conosceva quel tanto da scondinzolarli mansueto senza bisogno di dare l’allerta del proprio abbaiare deciso, professionista che era.

Quando quello sconsiderato del suo padrone si svegliò - era già sole alto, figurarsi - a lungo gli fischiò invano.

«Sàntus de su celu - ovviamente pensò - preso se lo sono i fantasmi!»

Il cuore gli batteva di picchiotto, tanto era impressìto di fuggirsene anche lui, che a impedirglielo si stese prono sull’erba ancora umida.

«E notèsta - disperava - bèninti a pigài a mei puru

A s’orìga l’istinto suggeriva di prenderselo a braccetto, su coru cosa sua, e fuggire appàri con lui. Ma suo padre lo avrebbe squartato chi nimàncu su procèddu avesse abbandonato incustodito l’ovile. Pertanto si rassegnò a restarci, confidando che abrèbus e buona sorte gliela filassero liscia.

Tre giorni interi se lo tennero, quelli, il lupo pastore. Ma la notte del terzo lo infilarono in un sacco di iuta tutto gonfio di paglia, fuori solo la testa, cinta di foglie secche. Ai fianchi e sul dorso una quantità di rami appuntiti infilzati ma da non ferire il cane, che a dire il vero dava la sensazione di spassarsela un mondo. E bene sapevano gli spiritosoni che nel silenzioso gioco delle ombre notturne avrebbe reso terrificante aspetto.

«Ddu pìgat arròri, cust’orta!» spiritosò l’uno.

«Ànima mala dd’arrìbat!» motteggiò l’altro.

Pertanto la povera bestia inconsapevole venne rimessa in libertà, e in tal guisa bardata imboccò sicura il saputo sentiero dei pascoli, dove avrebbe ritrovato - felice delle sue feste - l’adorato padroncino.

Quello, dal canto suo, per l’appunto da tre notti vegliava. «No m’hanti pigàu ancora - spasimava - adèssi notèsta

 


Fine secondo episodio

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata

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