Filatori di lana

Erano babbo e figlio Perdu e Grazianèddu, poverissimi filatori di lana che abitavano un bugigattolo bottega in una viuzza molto laterale del piccolo villaggio di Villamar. li affondava tutti scolpiti sulla fronte - solchi di aratro - i quarant’anni, Grazianèddu ne lisciava venti ed era meno arguto di quanto non apparisse a tutta prima. Zotici entrambi più del bastante, si volevano bene alla loro maniera e smezzavano le tenerezze alla gatta bianca, molto vagabonda e tanto scostumata.

Perdu non sapeva leggere manco con gli occhiali, ma nelle processioni al Battista sosteneva d’orgoglio al santo la portantina, dritto e petto in fuori che neppure un decorato alla marcia militare. Della nuova generazione Grazianèddu, sillabante alla meglio le scritte più grandi sui manifesti.

Sul fare della sera di un giorno d’inverno, deposto il lavoro babbo e figlio si calcolavano quante ciocche di lana sarebbero loro occorse - all’incirca - per confezionare i guanti al coro di vergini giunto da un torrido paese.

Grazianèddu si smoccolava la narice destra con l’indice sinistro, si stuzzicava l’orecchio sinistro col mignolo destro, l’uno e l’altro a liberarsi del giogo di un conteggio complicato. Quando d’un tratto, senza bussare, aprì l’uscio sgangherato un uomo avvolto nel candido manto di pecora da servo pastore. Troppo nodoso perché glielo avessero filato loro due.

«Bèngiu de Lunamatròna - affannò manco caricasse sulla schiena il capro montatore - e busso di porta in porta. Avete per caso veduta Antonìca, la pastorella dalle lunghe trecce bionde?»

«Di connòscis, tui, de Antonìcas pastòras?» domandò al ragazzo.

«Antonìca no - assicurò il ragazzo, crollando il capo in rinforzo al diniego - ma una Pepinèdda c’est, che le ha nere!»

«Pepinèdda no est Antonìca - puntualizzò il servo pastore - e nièddas non sono bionde!»

Intzàndus se ne uscì senza neppure serrare la porta, borbottando chissà cali arratza de frastìmu lègiu.

e Grazianèddu se ne fecero barra di quella visita.

«Facciamo che a cucire un guanto da vergine - riacciuffò Grazianèddu il discorso interrotto - tessano asumàncus due braccia di filo di lana!»

«Ma quante sono le coriste?» pose accorto quesito .

«Facciamo cento!»

«Per cento mani fanno duecento braccia di filo di lana!» esultò il vecchio, che sui conti ci smanettava.

«Le mani sono due, babài!» mostrò in palmi aperti Grazianèddu.

«Diavolo, sono quattrocento - spalancò occhi Perdu - de acuntentài puru sa becèsa cosa tua!»

E afferrò la lucerna per sincerarsi che nello stipo ci fosse conservata lana a sufficienza da stontonarla quella fortuna.

Fu in quella che si sparse per lo stanzino un lamento flebile e fino, simile al miagolio di un gatto.

«Intèndidu has, Grazianèddu?»

«Intèndidu hapu, babài!»

«Adèssi torra prìngia, sa gatu?»

«Tanti est pagu bagàssa!»

E avanzando alto il passo timoroso - su dimòniu poteva essere - scorsero oltre la matassa una specie di batuffolo puresso bianco.

«Sa gatu e tottu est - imprecò - maladìtta sìat!»

«Bàis ca no - svelò Grazianèddu, che di insolito impeto si era avvicinato - est tropu manna!»

«Ma chi est scramièndi!»

«Mi pàrrit de prus prantu de stria!»

E perseverante nell’insolito impeto, afferrò il lungo soffietto del focolare e mosse in unico blocco l’aggrovigliata matassa della lana grezza.


Fine primo episodio

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata
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