L'anima spartita

 

Intanto i due bricconi brillavano di conto come due scolari diligenti.

«Una a me e una a te!» asticellava da par suo il Padreterno.

«Una a te e una a me!» abbacava preciso Satanasso.

Tutto mentre il possidente terriero gocciolava sudore freddo, foglia tenera di bosco anche lui. E in cuore imprecava su vicàriù di non averlo a tempo purgato dei peccati, come avrebbe dovuto.

«Che volete da me don Briscola - gli aveva tirato voce dietro quella grata, rinserrato come un’ape regina - non credete vi abbia confessato tutto? Di cosa devo alleggerirmi ancora, se non della vita? Rendetemi l’assoluzione o giocatevela a carte, l’anima mia. E poi andate a impiccarvi!»

Più cocciuto di lui, monco di indice e di medio, don Briscola non lo aveva redento. Luisìcu ne certificò si fosse fatta mercanzia della sua eternità, lì nella sagrestia di quella sottanaccia infida e nera di pece.

Conferma gliene diedero all’uopo i due mercanti di anime, finalmente che ebbero vuotato il saccone di iuta.

«E di quella dietro il cancello - deliziò il Creatore - che ne facciamo?»

«La dividiamo a metà - salomonò la Bestiaccia - da buoni soci!»

«Non sia mai - elargì la Bontà infinita - gradisco sia tutta per te!»

Bastò perché il vegliardo ringiovanisse meglio garretti del suo cavallo, da un piede all’altro saltellante manco affondasse una pozza di fango. Che in un battere di palpebre si ritrovò nel coniugale letto in ginepro.

La stella fuori la finestra non si scorgeva più, ma penetrava nella stanza l’alito freddo e severo degli ulivi, da doversi tirare al mento la coperta.

Quattro ceppi più marci di lui, che il muschio già copriva del suo mantello verderame, gli parvero al suo ritorno darsi menagramo convegno. Le loro parole scivolavano facili di resina lungo il basso dei tronchi mozzati.

«Tutto slinfa e scolora, sortilegio di jànas!» quaresimò uno.

«La terra è sterile, la tenuta triste peggio di un cimitero di navi, scordate del glorioso solcare!» preficò un altro.

«Le colture a perdita d’occhio paiono un’imbiancato arenile di conchiglie, simili a ossa calcinate!» epitaffiò il peggio messo.

«Chi scrive i destini, muove a suo agio le cavallette!» necrologiò l’ultimo.

Fu troppa palude per un giorno solo, che Luisìcu ci sprofondò in un sonno profondo. Ma al mattino gli uccelli si sgolavano sugli alberi frondosi, tra le aiuole odorose il codone del gatto rosso guizzava schioppettante simile a una fiammella. Pensò con sollievo di avere sognato, in quello stordimento notturno. Tanto che quando vennero i servi a svegliarlo e vestirlo, lui che sempre si svegliava brontolante, si mostrò così amabile da spuntargli sui denti nientemeno che un sorriso di riconoscenza.

Più tardi, il testone sul palmo della mano, se ne stava accovacciato sotto l’albero dei limoni. Gli occhi increduli sulla tenuta rinata. I ricordi fiorivano in rosai, sfolgoranti di sole e inebrianti di macchia, da restargli stampata sul volto l’espressione beata e beota.

«Infine lo so - si svelò segreto - che l’uomo cilecca la gioia perché troppo la spasima in ciò che non possiede e che avere gli è proibito. Quanto me, perfino a scesa di sipario ne patisce. E cieco che le bestie ci stanno tanto più in agio di lui su questa sfera trottolante, così inetta a farsi rotonda!»

E sull’ultimo rintocco si riconciliò con Domine Iddio. In cotanta sincerità di spirito, che anche volle su vicàriu al suo capezzale. Allora don Briscola, in rispuntati indice e medio, mondato lo assolse.

Fine terzo episodio

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata
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