L'anima spartita

 

«Ascoltami Signore - sapientonava - come puoi riconciliarti all’uomo se lo pretendi felice quando è ingiuriato e perseguitato? Salvo a farsi sputare addosso. Credimi, non è cosa. Ti sei sì prodigato, ma sempre appresso a falegnami e pescatori, striscianti la vita al suolo e inveleniti peggio delle serpi. Possibile l’abbia scordato di averlo creato tu il cavallo, perché degli uomini soltanto alcuni ne potessero - ingroppandolo - elevarsi?»

E persuaso mancasse il Redentore dell’acume necessario, riconobbe a se stesso tale maggiore finezza di dottrina da sellare il cavallo e muovere al camposanto. Lì Bonaria gli avrebbe rivelato - lei poteva farlo - la via più retta e diretta da percorrere.

In quell’istante fu come se per la volta scura si spandesse lo sbatacchiare di una campana, che lui solo poteva udire. Era la sua sposa, ne riconobbe il piglio sollecito, a rammentargli che non era lontano il mattino. Era stata da giovane il faro sempre acceso a ogni attracco. Era giusto che adesso, vecchia nave che era diventato, risplendesse cometa di nuovo Natale.

Infine il suono dileguò. E la stella della sua finestra si era spostata più in alto, pronta a muovere anche lei sul suo cammino.

Sulla via per Arbus, un brivido gelido passava il bosco, dall’erba rada fino alle cime degli alberi. E con esso i pensieri della notte. Aveva smesso di pensare, chiaro ora il sentiero, essendone lui il pietrisco. Grevi di gocce manco ci avesse pianto su a dirotto il cielo, tenere e fresche le foglie, che parevano petali. Ma d’un tratto gli fece prurito un senso di fastidio, come lo avesse disarcionato il purosangue per farsi montare con più piacere da quello zotico dello stalliere. E i tronchi, che sempre a inoltrarli chetavano la rabbia, gli inoltravano adesso in cuore un cupo presagio.

«Il mio nettare - apeggiò - sicuro ha ronzato sulle orecchie del Creatore. Che ora, puntiglioso qual è, voglia smerciare l’anima mia a Satanasso?»

Intanto gli alberi si erano fatti più bassi e più radi, fino a lasciare del tutto il passo al villaggio. Giunto al cimitero tirò le redini al cavallo e lo discese, stordendolo il respiro dei pini. Il vecchio ne stipò i polmoni tipo bisacce, in così sonore boccate che due corvi spiccarono il volo infastiditi.

Nella notte severa la luce fioca della luna era fiammella da non intimorire le nuvole spesse e cieche, tanto che Luisìcu non scorse le sagome agili di due figuri che saltavano le pietose pareti, scivolandoci in ombre furtive e fugaci come gechi a caccia di zanzare.

Erano ladruncoli, pesanti di un saccone di iuta ricco di olive nere, giacché autunnava tempo di raccolta. Per spartirsele in pace, benché non eterna, di meglio del cimitero non avevano trovato.

Presero subito a contare, accomodati su una larga tomba piana.

«Una a me e una a te!» spallottolò il primo.

«Una a te e una a me!» spolliciò il secondo.

E andarono avanti fino almeno metà bottino, quando un’oliva capricciosa se ne scivolò dal sacco che si afflosciava per rotolare oltre il cancello.

«Madre mia - sgranò occhi atterriti Luisìcu - Paradiso e Inferno si giocano pari e patta la partita delle anime!»

E gli sembrò - anzi, se ne convinse - che un maligno pulviscolo rilasciasse la luna, ammorbandogli l’aria tanto il respiro quanto il pensiero. Benché già da tempo luce e tenebre mulinassero un tutt’uno nella sua anima.


Fine secondo episodio

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata
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