L'anima spartita

Annottava, ad Arbus. Nella sua bella casa padronale, che difendeva muri spessi un braccio, il ricco tenutario Luisìcu mirava dal riquadro della sua finestra la stella che risplendeva nel cielo d’autunno. L’indomani avrebbe fiorito l’ottantesima sua primavera, e sul vuoto letto di ginepro intagliato ricordava quando spagliate di lustri prima si era preso Bonaria, sedicenne appena. Bella e buona e seria, però la povera figlia del fattore.

A quei tempi un simile matrimonio era tessuto di foggia inconsueta, tanto che in paese lo si ricamò di fantasioso indispettito pettegolezzo.

Invece l’intesa tra i due funzionò a meraviglia, prolifica di amore e di figli, tutti a irrigarsi la vita su asciutte terre d’oltremare. I rimatori ci cavarono perciò una ballata che finì per essere cantata alle feste e al focolare. Ma poi la donna morì e il tenutario restò solo, triste al pari degli usignoli che non cantavano più, dei fiori ostinati a non profumare. La masseria intera pareva volesse morire con la padrona, che tanto l’amava.

Ma Luisìcu non voleva saperne di morire. Lo ricopriva - manto funebre - il velo degli anni, eppure ancora si sentiva vigoroso. Tipo i petardi di Santu Bastiànu gli tuonava in capo una filiera inesauribile di pensieri, di quando se l’era sposata, Bonaria. E quando l’aveva seppellita, prono e scavato di lacrime sul sepolcro. Come le note dell’organo finita la messa, così si era dileguata, altissimo volo sull’eterno silenzio.

«Moglie nuova ci vuole - risolse - fresca e forte come la rosa di marzo!»

D’altronde fresco e forte si sentiva, quasi che l’aratro del tempo su di lui non avesse affondato gli artigli della canizie. Nel cuore nero della morte avrebbe lui saputo affondare la fedele leppa in manico d’osso intagliato, rigirata fino a spremerle dagli occhi vermiglie lacrime di sangue.

«Affila pure la tua falce - bestemmiava - che Luisìcu il massaio di ricreata prole si farà eterno, alla pari di Domine Iddio!»

E ricordava come in passato il cuore gli si colmasse di gioia all’idea della caccia e delle danze, caccia anch’esse. Ma adesso a quale botte avrebbe spillato il vino capace di stordirlo? Il sangue gli bruciava foriero di epiche imprese, ma sul lettone era solo come la brocca sul desco non imbandito. Prese allora a osare villano sguardo sulle vergini contadinelle della corte, provocandone il riso stridulo sull’ondeggiare largo di anche. Ma alla notte la sua anima ne pativa, ustionata al fuoco della colpa.

«Vilipendo la mia Bonaria - ciliciava - oppure la vita?»

E riguardò la stella sporta alla finestra, manco da domandarle consiglio. Alta e pura come un diamante, ma priva di parlare. Meglio allora volgere pensiero al Padreterno, che certo da lassù piangeva uguale solitudine.

«Senti - arrogantò - il mondo degli uomini lo conosco meglio di te, unico e aspro dolore, ponte crollato fra Terra e Cielo. Rabberciare lo dovresti, che l’anima in festa fa tracannare oltre l’ampolla perfino i ministri di Dio. Che dico, Dio stesso, perché di sottane ci scampi. Dammi retta e fatti, del tuo popolo prescelto, immagine e somiglianza. Cherubini e Serafini troveresti grati, non più assordati di lacrime e lamenti!»

Poi però pensò che già una volta dal Paradiso era disceso, per risalirci coi palmi trafitti e incoronato di spine.

E cercò in sé parole nuove che mitigassero l’ardire e l’azzardo.


Fine primo episodio

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata
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