Su longufrèsu

 

In anni brizzolati lavorava e abitava una delle tante campagne intorno al villaggio di Pabillònis un pure imbiancato contadino, che di parole a mala pena il necessario, tòtus ddu narànta tziu Citìu. De buciàca lèvia ma de non stentài sa mesa, latte e miele stillava il cuore, se in quel breve sfilare di muri in làdiri ognuno lo teneva po’ òmini de sentìdu e de fuèddu.

Con lui la moglie e i cinque figli. Femmine le prime quattro, pani sfornati in rapida successione e oramai cotte a etàdi de còia. Ancora piciochèddu su mascu, tzerriàu Vissènti comènti a su iàu e affidato pipìu alla vita degli uomini e della campagna. Sa dì accudiva i due buoi da giogo e la doppia dozzina di galline ovaiole, abile a intarsiare i legni cun sa lepa - manico in corno di muflone - e al banditesco fumo del sigaro col fuoco in bocca. De su tziu pastòri aveva inoltre imparato a tosare e mungere le pecore, e a detta di tutti fare ottimo il pecorino. Pure da quello scapolone del fratello di suo padre, che se lo curava da figlio, si era preso la parlata disinvolta e l’ironia salace - l’opposto di tziu Citìu - da meritarsi il nomignolo di Lingua a serramanico.

Allevate alla severa scuola delle massaie, di sobria bellezza campagnola, dal canto loro le giovinette assolvevano di cura le faccende domestiche. Filare la lana. Alla sorgente cariche su cercine e capo le brocche ricolme d’acqua. A s’arrìu il battere dei panni sciacquati e spettegolati in fresco di bucato. Doti le più necessarie per essere infilate d’anello, ma de prus su civràxu, faticata sapienza millenaria della settimana - di ogni settimana - fatta sicura dell’immancabile rituale magico sacrale. Dal lunedì al sabato, per riposare la domenica più meritatamente che Domine Iddio.

Tziu Citìu, che sui capelli imbiancava saggezza, di quel suo ultimogenito coglieva con triste chiarezza l’anelito alla vita dissodata dei pascoli e alla notte di stelle. O al più di pinnèto.

«Fillu se du coru - gli disse al sorgere di un’alba triste pur’essa - deu seu imbeccèndi e a tui no ti pràxit de traballài sa terra. Deu bendu totu, chi a is sòrris tùas tòcat a ddas fai coiài. Tui sìghit s’andàda cosa tua, chi su de fradi miu in Genùri est po’ tui

Tanto aveva ragione, che perfino Lingua a Serramanico non salivò parole da ribattergli.

«Comènti nàrat fustèj, babài

Tziu Citìu lo benedì prima di voltare spalle verso casa, così sbattuto che a Vissènti parve farsi più curvo a ogni passo. Tuttavia non mancò di volgere sguardo al lanoso orizzonte che aveva scelto, anche se la carrareccia non era lèvia de pèis manco in getto di sole, totu stampàda chi fìat e mancài de pisciònis bèllus. E quel giorno parìat su celu lacrimarglielo lui il pianto asciutto di suo padre, cui il Maestrale aveva in prestito preso le manone callose per schiaffeggiargli l’ardire ingrato.

«Cussu hat scioberàu sa vida chi dd’est pràxidu - giustificò grida al cielo e a Dio, aggrottando le sopracciglia colore di corvo quasi l’avesse davanti al naso Nostro Signore - su pròpriu tòcat a mei

In risposta tuonò forte, in cussu momèntu, l’ira dell’Onnipotente.

«Il diavolo ti bruci!»

Il cielo era mare tumultuoso quanto il suo cuore, più annuvolato dei suoi pensieri, tempestoso peggio dell’anima sua. Natale e anno vecchio erano dunque passati invano sulla sua vita, nuova come l’anno neonato?

 
Fine primo episodio

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata

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