Su longufrèsu

 

Sabato di befana e di carbone sarebbe stato, l’indomani. E pensò che suo padre tenesse la benedizione sulle dita e la maledizione in cuore.

Gli venne fame - cussa lègia - e di fionda centrò una tàcula. Poi pentito la seppellì, da non incorrere in altro peccato.

«Faminèddu portu!» sibilava empio quella serpe dello stomaco.

Che inuso al deserto, Vissènti la sfossò. Quindi acceso il fuoco al riparo di un incavo nella roccia, l’arrostì de manu bella e se la divorò cun prexèri. D’altronde batteva la mezza, l’ora da sedersi a tavola i possidenti, uno di loro già sentendosi. Perfino spuntò e raggiò il sole, vergata di pace della penna celeste, da suggerirgli lesta ripresa di cammino.

«Chini si mòvit a megàma - arringò tradizione - no si pìgat sprama

In quella, gettata dietro le spalle sa bèrtula e drizzata sul capo sa berrìta, eccogli sotto al naso sfrecciare zoccoli un grosso cervo.

Ancora a Lingua a serramanico zittirono parole.

«No ‘ndi bìvinti, de cùstas pàrtis!» semplicemente annotò.

Vero, era. E certo doveva essere molto spaventato se quella corsa senza controllo cessò imbrigliata di corna fra i cespugli spinosi.

Il buon ragazzo lo avvicinò di lenta cautela, lesto però d’occhi sulla ferita alla zampa posteriore destra. La povera bestia mugulava lamento simile a un triste canto.

«No tìmas - sussurrò dolce Vissènti - chi ti portu agiùdu

E lo carezzò con le due mani, percependone i palmi il palpito impazzito.

«No tìmas

Quello lo fissava dei suoi grandi occhioni colore di zolla, anch’essi dolci. Grati, si sarebbe detto.

Su tziu glielo aveva insegnato - sa primu cosa - come si curano le pecore.

«Su pròpriu, adèssi!» arrangiò.

E raccolta una folta manciata di foglie medicamentose che lì nascevano spontanee, ritornò alla bestiola dal triste pianto.

«Imòi ci pentzu deu - alleviò parole - chi nimàncu su dotòri

E davvero si mise all’opera col piglio barròsu del meglio cerusico. Sollevò le maniche della candida camicia, si sputò sulle mani e colse di bisaccia alcune delle foglie, su cui anche sputò. Quindi le appose sulla ferita.

A seguire le altre, puru sercàdas, po’ serrài dell’immancabile abrèbu.

Folla sercàda a pìtzus de pècia
sànat de aìci sa jana prus bècia
intzàndus sa cruxi cumàndu de Dèus
cussa ddu fàit? E su pròpriu deu

Sempre di bisaccia cavò allora il mezzo civràxu, lo ammorbidì alla fonte e ci fece pastetta da ristorarci il cervo.

Tòcat a ddu narri. Vissènti lo sapeva il fatto suo, se in capo a un’ora fu in grado quello di risgarrettare la propria - pure magica - corsa.

Il sole intiepidiva le ore della sera quando soddisfatto dell’opera cosa sua il pastorello spalancò d’uscio la dimora dello zio paterno, nel più profondo delle campagne di Genùri. E totu prexàu, ansimante che cuadèddu, diede di piglio Lingua a serramanico a su contu de su fatu.

Ma avendo quell’altro ecceduto di filufèrru, forroscàva benimìndi.

«Babài m’abètat po’ cenài. A issu ddu pràxinti cùstas còsas

E via, in ampia falcata, verso Pabillònis.

Sceti chi tziu Citìu, non vedendolo arrivare e sapendolo a tavola puntuale comènti sa morti, preoccupato infilò mantello e berrìta. In quella il fischio a quattro dita appaiate lo riassise allo scranno.

E finalmente quella lingua a serramanico poté scattare e aprirsi di tutta la propria giovanile ed esuberante eloquenza.

Del vecchio, invece, più parlarono gli occhi..

 
Fine secondo episodio

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata

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