Su longufrèsu

 

«Nàras - solo disse - sa tassa puru has imparàu de fradi miu

E se ne andò a dormire, lasciandolo solo e mortificato.

Forse fu per quello che Vissènti non prese sonno.

«Bàis e cìrcas de aùndi est aproliàu - pensava - e aùndi adèssi, imòi

Tanto che quando al sorgere di sole in quella vigilia di befana la madre gli urlò da basso de si ‘ndi pesài, cussu ‘nci fìat giài bessìu de domu.

All’alba si era mosso, bèrtula a coddu e berrìta trota, alla cerca del cervo.

Avanzava alliscìna alliscìna, che la notte aveva gelato, respirando a pieni polmoni l’aria financo gelata. De atèsu, Pabillònis parìat una nuxèdda sul vassoio spianato del Medio Campidano. Più volte si voltò a contemplarlo, quasi anelandone l’abbraccio tiepido. Poi però riprese deciso il cammino, manco muovesse pure lui a cavallo di scopa.

Ore vagò quella cerca improbabile, che infine si accesero le stelle. Allora sedette avvolto di buio e di silenzio e del cupo pensiero di quanto in casa lo attendessero con pena.

La notte era scesa delicata sulla piana, prepotente su frìus. Di bisaccia ci cavò il civràxu e su casu. E binu bellu, che col gelo tiene a bada la paura. Magari sostenuto dell’arte antica de is mutètus.

Candu est grai sa timodìa
a pìtzus de s’ànima mia
circu agiùdu po’ sa ìa
de su Babu e de Marìa

E pure pregò, sia pure del cervo manco un bramito.

Lo scoperse in cussu momèntu, danzante alla cetra de su bentu Maìstu, il rosso fiore che non aveva mai veduto. Abbacinava come di mille lucciole che ci svolazzassero attorno, api senza ronzio pur’esse in ali di danza. De bidda, in lontananza i rintocchi della mezzanotte gli battevano all’unisono in cuore uguale malinconia. «Benìa est s’ora de torrài!» dindondò issu puru.

E smontando di scopa, de passu lentu invertì la via, sa bèrtula vuotata di doni come di speranze.

Fu in quella che rimbombò eco una voce.

«Vissènti

Era sottile e gentile.

Lui aguzzò occhi e orecchie, riflessi pronti e nervi tesi.

«Chini ses?» imbracciò voce anche lui, manco imbracciasse doppietta.

Scrutò e spiò sotto la coperta della notte, ma non c’era nessuno.

«Bessìnci a fòras - sgolò - chi ses òmini

Ma nessuno.

«Su dimòniu, ses

«Solamente un fiore. Longufrèsu è il mio nome!»

Padre e zio gliene avevano parlato. Era il fiore chiacchierone. Quello che uno solo ne nasce nei santi giorni fra Natale e la Befana, e che all’istante muore, in rivelata verità al cuore che la sa udire. Ora lo riconosceva.

«Perdonamì bellu frori, chi ses arrùju comènti sa faci mia, brigungiòsa de no t’essi connòtu. Ita cosa, chi a mei pròpriu has aboxinàu

«Perché il patimento del cervo, in gesti e pensieri in te hai patito!»

Vissènti volse in terra lo sguardo.

«Ma no dd’hapu pòtziu agatài

«Sono io il cervo che hai curato e salvato dal pericolo. Era la tua prova e l’hai superata. Ora, in questa notte magica, prometti che viva manterrai la fiamma della generosità al focolare del tuo cuore!»

«Deu ddu promìtu

«E io prometto alle tue sorelle la medesima tua abbondanza!»

Che tanto sentenziato, appassì. Ma sotto agli spini su cui rosseggiava, in dorata evidenza luccicarono quattro monete d’oro.

«Una po’ babài - contò sulle dita Vissènti - tres po’ in sòrris mìas

E assicurati i doni in sa bèrtula, ricavalcò la scopa del ritorno, per vivere coi propri amati quella che sarebbe rimasta la più bella Befana della sua lunga vita felice tra Pabillònis e Genùri.

Fine

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata

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