I due sosia

E giunto a casa, gli parve che la luna se ne rallegrasse anche lei della sua fortuna, tanto brillava alta nel cielo. Poteva finalmente sposarsela la sua Livia, ora che non offuscavano più ombre da rifiutarlo. Allora se la sognò, bella e sorridente nel suo abito bianco da sposa.

L’indomani all’alba già dirigeva verso Setzu sul suo cavallo, focoso e nero quanto gli occhi dell’amata. Non aveva altro tempo da sottrarre alla sua felicità, che raggiunse il minuscolo villaggio manco gli fossero spuntate le ali di Pègaso al suo cavallo.

«Così lo chiamerò, de imòi!» trovò giusto.

Smontò nell’unica piazza e lì lo assicurò all’anello di ferro sul muro della taverna che ci si affacciava. Un goccetto avrebbe reso ardire di parole. «Ita manèra - si incitava - òmini seu!»

Ed entrò.

Varcato aveva appena la soglia, che uno intese vociarlo.

«Mih, sanàu ti ses!» Era Paulèddu, il sosia colla verruca sulla guancia sinistra.

«Così pare!» tagliò corto Marièddu, di un certo fastidio.

«E subito in bidda ses arrùtu, ah no? A sa faci cosa mia!»

«Scendine, che non è per te!»

«Tènis arrèxòni, mèllus una bella piciòca!»

Pedante e fastidioso e sbronzo che a scrollarselo di bicchiere Marièddu gli raccontò del grosso cavo nel grosso tronco di sughera e della danza agli spiriti del bosco. E a bocca aperta lo lasciò per correre dalla sua Livia, che abbracciandolo lacrimò gioia, questa volta.

«Tui no - tramò in riso di iena Paulèddu - ma deu notèsta bandu!»

Aspettò con scarsa pazienza il tramonto - a frastìmus - quindi ingroppò il ronzino.

Direzione la Giara di Gesturi.

Marièddu gli aveva indicato il posto con dovizia di particolari, de aìci non faticò a trovare il grosso cavo nel grosso tronco di sughera. Agile lo infilò, attendendo le entità con poca pazienza. A frastìmus.

«Sciolleisìdda, dimònius!»

Ed ecco, sul batacchio di mezzanotte, gli spiriti del bosco sedersi attorno al grosso cavo del grosso tronco di sughera.

Alcuni avevano enormi occhi sulla fronte, altri nasoni lunghi e stretti, altri ancora grossi e grassi. Qualcun altro labbra da congiungere un orecchio all’altro, rotonde e schiacciate entrambe, stampo per pani. Finché al fiato di organetto presero a sgolare mutètus e ingoiare fiumi di ottimo bovàle.

«Bùffanta che barrìlis - stupì il giovane - a narri chi funti cuàddus!»

E sporse dal grosso cavo a vedere quello che aveva aria di essere il capo fare apparire d’incanto no scìu cantu cosa de papài. Còrdulas e tratàlias e filatròtas. A non mancài su filufèrru.

Si divertivano ma non troppo. Meno di tutti proprio lui, il capo.

«Speriamo arrivi presto Marièddu!» sospirò.

Al che Paulèddu si lasciò cadere in sonoro tonfo, rovesciando la brocca di bovàle e versandolo sull’erba già umida di suo, a quell’ora.

«Ajò movirìndi - tuonò lo spirito capo - chi sèus abetèndi a tui!»

Ma il cattivo giovanotto era una frana a saltare il ballo tondo, sconosciuto alle sagre della Marmilla. Si dimenò a casaccio, parendo ubriaco, che gli spiriti del bosco ne rimasero schifati.

«A riderci brulla sei venuto? - rabbiò lo spirito capo - E puru barròsu della verruca nuova. Temendo eri a non rivederla, cuss’atra? Leh, pigarìdda!»

Così sulla guancia destra, facile facile lo stregone gliela riattaccò.

Ne disperò Paulèddu, che di doppia verruca campò, sembrando formato il suo faccione di due melanzane raggrinzite.

Fine

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata
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