I due sosia

In anni scordati sulla soffitta impolverata del tempo, nell’ameno villaggio di Gesturi faticava da mane a sera un pezzo di giovanotto che mostrava sulla guancia destra una lunga verruca, dura e nera pari a una carruba. E per quanto Marièddu ostentasse nome e bicipiti del nonno, quello sfregio gli arrecava profonda amarezza. Non tanto per via dei buontemponi che si profittavano di ogni occasione per ridergli beffa, di più per l’incaponito rifiuto della sua Livia a lasciarsi anulare l’anello. Che mica gli striminziva palpiti la buona ragazza, paonazza sempre al suo allargare di spalle. Solo temeva sposandolo di cucire in faccia ai figli che sarebbero venuti, come usava alle tovaglie, la stessa voglia del padre.

Trovatello, lo aveva d’amore allevato una famiglia di contadini, ignorando perciò Marièddu chi al mondo ce lo avesse scaraventato controvoglia.

Nessuno ne era a conoscenza nel villaggio di Gesturi, dove pure tutti si facevano carico di conoscere i fatti degli altri, manco fosse il paesello un enorme confessionale. E nessuno lo sapeva pure nel villaggetto di Setzu, dove sfaccendava esistenza Paulèddu e dove Livia innaffiava lacrime.

Trovato e cresciuto da una famiglia di pastori, era Paulèddu di Marièddu l’immagine riflessa allo specchio. Identico perfino nella carruba sul viso, ma esagerata sulla guancia sinistra.

Convinte venissero da un’unica pancia, le due famiglie li fecero crescere insieme il più che poterono, inutilmente pagando alle brusce molti sudati risparmi affinché ne espiassero la pena d’inferno che arrostivano in volto. Da doversene infine rassegnare tutti, adulti e piciòcus.

Mai invelenito della sua protuberanza, Marièddu crebbe allegro e solare, da tutti stimato per la laboriosità e l’agire onesto.

Incarognito col mondo, di ognuno profittava Paulèddu. Da ognuno evitato e da intestardirsi per lui il futuro sosia del passato.

Molte candele si erano smoccolate, quando una sera d’inverno si accorse Marièddu di avere vuota la legnaia, diversamente dal bicchiere.

«Conca deu de lina - batté mano sulla fronte - imòi comènti fatzu

Fortuna il sole non era ancora al tramonto, e i garretti del suo cavallo gli avrebbero consentito una discreta soma alla Giara, prima del buio. Anche perché conosceva la leggenda dei cavallini. Placidi e pascolanti durante il giorno, spiriti del bosco la notte.

Aveva appena finito di gravargli la groppa, al baio, quando il cielo si fece più nero del suo pelo e un tuono che parve squarciarlo lo fece sgarrettare terrorizzato. Quindi un tale scrosciare di pioggia che neppure la cascata di Sa Spèndula, tuffo ai monti di Villacidro. Marièddu ruotò lo sguardo alla cerca di un riparo, ma non gli riuscì di adocchiare che un grosso cavo nel grosso tronco di una sughera. Agile lo imbucò, saputo che i temporali non affilano denti lunghi sulla Marmilla. Quello invece imbestialiva insistenza, placandosi suppergiù al batacchio di mezzanotte.

«Su cuàddu est fidàu meda - pregò - chi est acànta, mancài arrinèsciu a mi ‘nd’andài strantàxu de custu logu

Ma neppure il tempo dell’amen e intese verso di lui un calpestare di molti piedi, poi un fitto bisbigliare di voci umane.

«Benìus funti a mi circài

Magra speranza. Non più placidi e pascolanti cavallini, giungevano invece ciondolanti e irrequieti gli spiriti del bosco.

Fine primo episodio

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata
Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

← Torna all'elenco degli episodi

FacebookFollowersYoutube white Instagram white Twitter

 

 

WhatsApp

Medio Campidano in breve

 

Appuntamenti di cultura, incontro, socialità

Lun Mar Mer Gio Ven Sab Dom
1
2
4
16
17
18
24
26
27
29
30