Tele e ragnatele

Senza attendere sprone, Lucaria diede aiuto. A uno fece la cuffia e a uno la sciarpa, a uno la calza e a uno l’altra calza. Pertanto alla terza grotta le fate delle rocce - sempri arrièndi - le mostrarono unu muntòni meda prus mannu de mantixèddas, nièddas comènti a su noti.

«Sei stata brava - tessero le jànas la tela loro - prendine quante ne vuoi!»

Non scordò Lucaria il consiglio del vecchio orco, e pertanto scelse le peggio perché quelle le tornassero le meglio. Ne ebbe infatti che neppure la regina le possedeva tanto belle, in più tela e panno così tanto da dirsi arrìca come la regina stessa.

«No ‘nci torru mancu po’ nudda a domu - risolse Lucaria in deciso battito di ciglia - si arrangino senza di me quelle due megere, loro streghe davvero!»

La vedova però non sputòbah e né boh, che se cuore non gliene era rimasto, all’orgoglio non sarebbe bastata la stiva di un bastimento.

Per Giovanòla si trattava invece di un rospo troppo grosso da ingoiare, fosse pure un principe affatato.

«Ci andrò pure io a domandare scialli alle jànas - determinò dal canto suo - e mischìne loro se non me li daranno. Più nere della lana le faccio!»

«Fàis comènti ti pràxit!» fu la zaccata risposta di sua madre.

Sicché alla pari di Lucaria si avviò verso il nuraghe detto de s’Orcu, sulla collina proprio di fronte allo spuntone di roccia Bruncu Maddèus. Ma a passu lentu, pisciònis de boi che era.

Solo che incanto di serpenti erano i guai suoi, da farle oltrepassare il siluro di pietra priva di scorgere il vecchio orco che le si parava dinanzi.

«Piciochèdda - incuriosì l’orco - dove è che te ne vai così impressìda?»

«Basta che lo so io dove, ficchètto!» sgarbò la maleducata.

«Mali intzàndus te ne venga de custa andàda!» la maledì quello.

E come le aveva offerto la faccia, in sa pròpiu manèra le girò di spalle.

Mica se ne diede pensiero cussa nàscida de pèis de Giovanòla, che arrivata alla roccia di Bruncu Maddèus scagliò sulla dimora pure di pietra delle jànas un perdigòne così grosso che solo la forza della gelosia le aveva consentito di sollevare. Da tremarne tutta la grotta, scurixèdda.

Tuttavia dall’interno le giunsero all’unisono stridule vocine.

«Cràvas l’indice destro in su stampixèddu di lato all’ingresso!»

Quella incautamente ce lo cravò e quelle altre di netto glielo troncarono, in sinistro ridacchiare di faine.

Giovanòla rincasò dolorante e frignante di ohi ohi che il sole si lavava i piedi al mare d’orizzonte alla faccia sua, prima di coricarsi sotto la coperta della notte, mantella di lana di pecora nera anche lei.

«Detto te l’avevo - le rinfacciò ancora zaccata la vedova - cònchina che sei. Imòi piangitelo e sanatelo da sola!»

E superbe che erano state restarono ad affrontare l’inverno - che quell’anno già svegliandosi aveva messo il broncio - senza gli scialli di pecora nera.

Ma Lucaria non tesseva rancore al suo telaio e is mantixèddas nièddas volle tesserle e darle lei, pure guardandosi bene da tornare in quella casa.

Figurarsi quelle. Trame ai suoi danni mai più ordirono, ma covarono l’odio in segreto. L’invidia è male che non fa a guarirlo, neppure a cantargli le parole sacre e magiche della tradizione. Quelle che i vecchi di Guspini dicono essere is abrèbus. Conti e còntus, ognuno a farseli e dirseli in cielo.

E a me che notte
illuma un mòccolo
di giorno invece
neppure un biòccolo

 

Fine terzo episodio

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata
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