Tele e ragnatele


Tra le mura scalcinate di un angusto viottolo del vasto villaggio di
Guspini, in anni lontani che l’ammandronàta saggina del tempo ha ramazzato sotto al secolare lettone, anneriva i suoi giorni una vedova dal cuore affumicato di superbia che neppure la canna di un focolare.

Benché due fragranti pagnotte avesse impastato e cotto a dovere al forno della pancia sua, anche lei si manteneva soffice e tenera quanto un cirro di primavera. Gli artigli adunchi dell’esistenza si facevano per sua vanità mattarello, a darle candida pelle come di pasta stesa. Eppure nessuno la domandava in quella piana in eguale misura stesa al mattarello e accucciata sotto la montagna. Si diceva perché i suoi grandi occhi neri erano pennelli intinti alla tavolozza dell’anima.

Odorosi fiori di campo erano pertanto le sue figliole, su cui simili a nugoli di api i giovanotti anelavano posarsi a ciucciarne il nettare. Giacché - bagarìas entrambe - ostentavano mancino anulare da infilarci l’anello.

La maggiore era Lucaria, ma tutti a Guspini la chiamavano Gravèllu per via dell’esagerata timidezza che la faceva paonazza al solo rivolgerle la parola. Gentile però altrettanto e cuore candido come un asfodelo, avendo spillato alla botte paterna maggiore misura di sangue.

Dentro e fuori era invece Giovanòla la sputazza della madre, da intendersi le due a meraviglia. E giacché al passare per via della primogenita i vecchi si scappellavano e le massaie benedicevano, alla pari di grossi tarli quelle altre due si rodevano d’invidia tutta quanta la scorza.

Immusoniva quell’inverno, che già risvegliandosi aveva messo il broncio. E appàri con lui, al coricarsi dell’anno la vedova si levò madre più snaturata del solito.

«Quasi quasi - ghignò che manco coga alla culla - la spedisco dalle jànas di Bruncu Maddèus a farsi arregàlare scialli di lana di pecora nera!»

«Èja - sibilò Giovanòla come la serpe davanti al topo - così le scarràffiano la faccia e nessuno la guarda più!»

Così che quando Lucaria se ne tornò mondata dalla mattutina confessione, quella le affettò voce lacrimosa.

«Il gennaio che giunge ha fiato di neve - piagnucolò lacrime di strìa - e noi mica ne filiamo scialli da scaldarlo. Tu che hai leste gambixèddas de solìtu, corri alla domu de jànas di Bruncu Maddèus e domanda alle fate il favore a dartene mancài una parìga. Ma in lana di pecora nera, che le carda e tesse su dimòniu al fuoco dell’inferno!»

Lucaria era una giovinetta di spirito, se anche brigungiòsa, che nulla doveva a nessuno e non le recava il tramonto ombre da incupirla. Tuttavia sbiancò questa volta, tanto si dicevano dispettose le fatine delle rocce.

«Bene lo sapete, madre mia - scongiurò - che se l’andare ha labbra erbose, denti di tagliola possiede il ritorno!»

Ma non le riuscì di snocciolare preghiere bastanti, afferrando già la vedova il nodoso battipanni. E sicomènti lo sapeva che perfino le jànas non le avrebbero fatto peggio, si scrollò di dosso la paura come un cane totu pìu uscito dall’acqua.

Pertanto s’incamminò, curiosamente arrampicando il colle proprio fronte lo spuntone di roccia de Bruncu Maddèus, là dove si erge il nuraghe detto de s’Orcu. Ma orco buono e saggio, cui Lucaria voleva domandare consiglio. Solo che incanto di serpenti erano i guai suoi, da farle oltrepassare il siluro di pietra priva di scorgere il vecchio orco che le si parava dinanzi.

Fine primo episodio

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata
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