Luìsu e Boìcu erano due fratelli. Invecchiati vedovi e senza prole, viveva il primo a Las Plàssas - ameno borgo natio - il secondo nel vicino villaggio di Furtèi, dove aveva conosciuto la perduta moglie.
Cuore generoso e anima pia, Luìsu. Sempre confessato e comunicato alla domenica, che pure una pagnotta soltanto indurisse sulla sua tavola mai abbondata, sempre la divideva con chiunque gli batacchiasse affamato il portone sgangherato. Tutti a Las Plassas gli volevano un gran bene. E chi poteva del suo poco non mancava di allietargli la misera esistenza. Uno il latte, un altro il formaggio. Chi l’olio, chi il vino. Quello il pane, quell’altro il companatico. E per le feste un arrògu de angionèddu arrustìu.
Come partorito da pancia di coga, invidioso e avido era invece Boìcu. A Furtei ancora lo chiamavano su sennorixèddu, come da giovanotto. Privo di titoli veri e striminzito di denari, doveva il nomignolo tanto ai suoi modi distinti quanto al disprezzo che dimostrava agli usi ingenui e semplici dei popolani. Così stucchevolmente felici suo malgrado, all’osteria come alla processione di Maria Maddalena, la cara santa patrona. Che pure quando ci provava a giocare a carte con loro, a ogni bicchiere sentiva montargli in cuore - appaiate - rabbia e malevolenza.
Ma il popolino sa mostrare compreso rispetto nei confronti della cupezza senza motivo e senza speranza, cavandoci Boìcu di fondo al sacco, certo ossequio premuroso, benché la sua esistenza possedesse molto poco del passato splendido che era solito millantare. Aveva anzi in brevissimi anni dilapidato la piccola dote della povera moglie, spesso capitandogli di non poterla che sbadigliare, la fame. Malcontento di sé e geloso degli altri, il borbottio delle labbra non quietava un solo istante della giornata - manco la notte - quel sordo murrungiàre che era della sua anima. Nuvola di zolfo sprigionata in vita a segnarne - e insegnarne - l’eternità ineluttabile.
Successe la monetina di quel giorno che se ne scivolò dalla tasca bucata delle brache smemorate del tempo. Luìsu si era stancato di bersi soletto soletto il fondo del barile della propria esistenza. Sapeva di essere troppo vecchio per una moglie, pure desiderava di avere qualcuno in casa che lo amasse sinceramente e di cui lui potesse prendersi cura. Pertanto adottò un randagio che sempre a vederlo gli scodinzolava. Era tutto bianco, ma il basso delle zampe nere, simile a dei calzini. Tanto che lo chiamò Mìgia. E stavano benissimo. Per le viuzze del villaggio, lui davanti e Mìgia dietro. Per i sentieri dei campi di campagna, Mìgia davanti e lui dietro.
Fu proprio in una domenica di campi, dopo l’Ite della Messa cantata delle undici, che Mìgia trotterellò più veloce del solito da distanziarlo.
«A bellu - richiamava Luìsu - chi tui pisciònis ‘ndi pòrtas quàtru, deu sceti dus e mali pigàus!»
Lontano che era, Mìgia parve udirlo quell’ordine appena sussurrato, tanto che fermò all’istante la corsa. Da stupirsene, Luìsu. Ma poi lo scorse tutto intento a scavare in un punto preciso di terra brulla.
«Fragu de ossu hât intèndidu cussu satzagòni!»
Ma quando finalmente lo raggiunse, senza osso fra i denti aguzzi Mìgia gli scodinzolava più festoso del solito, fissandolo di occhi devoti.
«Lasciami fare amato padrone - pareva volergli dire - che finito di scavare ci solleverai di pesante là sotto, altro che osso!»
E rieccolo muovere di lena le zampe anteriori, smucchiando la terra con le posteriori.
Fine primo episodio
Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata
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