La casa di pietra

Grappolo di pregiata uva da tavola è il ricordo a Tuili, che in rotondi acini saporiti colma al camino la caraffa della storia. Spilucca, il saporito chicco succoso, di quando per le viuzze dell’antico villaggio strabiliava un vero e proprio gigante. Così vezzeggiato che al serale assopirsi di sole erano usi i buoni abitanti ninnarlo dei versi composti in suo nome.

Di Tuili il gran colosso
è bandiera al vento stesa
che i nemici come l’osso
strazia a non alzargli resa

Truncu lo chiamavano, robusta quercia che era.

E davvero non c’era paesano che mancasse di stupire della sua tempra e del suo ardimento. Ingenui e generosi, tutti là si erano convinti che anche l’anima di Truncu fosse grande e possente, al pari del corpo formidabile.

Pertanto a lui - dio sulla terra - ognuno per riceverne offriva amicizia, che non si sa mai. E per meglio ingraziarselo - che non si sa mai - popolano non c’era che mancasse di offrirgli ogni settimana i prodotti abbondanti e genuini e saporiti della propria chinata fatica. Truncu, che sotto i pettorali scolpiti palpitava un cuore semplice, non comprendeva il perché di quella esagerazione, battendo la sua amicizia i medesimi palpiti del cuore.

In ogni caso se li raccoglieva i doni, se pure di misurata compiacenza. E poi, in ingenuo risarcimento, sbalordiva quei creduloni dei compaesani sradicando a mani nude i più affondati alberi della Giara o sollevandone a due a due - uno per per braccio, come fuscelli - i tradizionali cavallini. Ma anche frantumando con una semplice testata enormi macigni secolari via via più grossi e pesanti.

Follixèdda era una specie di saggio, lì al villaggio. Su ogni cosa a lui gli ingenui popolani domandavano consiglio, benché in giovinezza altro non fosse stato che pastore di poche pecore. Piccolo e curvo, ostentava però folte e bianche la capigliatura e la barba, manco delle sue pecore avesse voluto custodirne il vello candido e annodato. Immancabilmente accesa la vecchia pipa di ginepro intarsiato, fuoco covante là sotto alla pari della brace nel caldano, fumigandogli i baffoni di neve che parevano cosparsi di fosforo. Pochi denti e molta lingua, non si lasciava sfuggire occasione per ramanzinare, che neppure quella tonacaccia forforosa de su vicàriu.

In verità, meno di ogni altro fastidio - e lo infastidiva qualunque cosa - lo entusiasmavano le prodezze del colosso. E ad ammonire la propria gente della esagerata attenzione riservatagli, scivolava sdentate invettive sulla lingua come lo scroscio della cascata sulla liscia roccia a strapiombo. E a non essere da meno di loro e di Truncu, le murrungiàva in versi.

Ascurtàis e tenèis a menti
su chi fàit cumpàngiu Truncu
est binu spuntu buffàu a bruncu
chi pìgat a conca e de prus a brenti

Così ammaestrava sulla piazza della chiesa di Tuili, antica e bella, benché i buoni popolani gli prestassero - ma solo in quel caso - poco ascolto.

Accadde poi una volta che a Truncu si sfilacciasse del tutto il manico de su scartèddu sempre appeso al polso. Ci raccoglieva di tutto, oltre ai doni dei tanti amici, e ci era tanto affezionato. Ciononostante non ci salò sopra troppe lacrime, e l’indomani all’alba già muoveva i suoi piedoni - ruote di carrettone, erano - verso la vicina Barumini, dove abilmente intrecciava giunchi tziu Citìu, sempre taciturno fuori del necessario. Capace e baràtu, da tutta la Marmilla ci andavano. Tanto che anche lui ci andò.


Fine primo episodio

L'immagine in evidenza è tratta da "Storia sarda da colorare"  (Carlo Murtas) - Novembre 2016 - www.lastoriasarda.com

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata
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