L'osteria

Il Maestrale si era levato violento togliendogli il respiro e urlandogli l’urlo di rabbia. Batteva le montagne come le scogliere il mare infuriato. Che lui sapeva quanto la melodia selvaggia del vento racconti sempre qualcosa. Suggerendo, insistendo, implorando. Il sangue fermentava il lievito acre del dispetto verso il suo vivere scampanato, le piccole miserie da osteria. Perciò non voleva dormire, rivelandogli arcani pure i profondi silenzi della notte. Le stelle gli trafiggevano le palpebre chiuse, sottili aghi di cristallo graffianti unghie affilate di luce.

La campagna era deserta. Oltre, la lunga macchia scapigliata degli ulivi, sull’impennata di monti Magùsu. Denso e vasto il silenzio, l’eco zoccolato del baio risuonava lontano. Alta e colma la luna fiottava latte e pervinca su Villacidro come un’immensa corolla di tarassaco. Studacandèlas legò il cavallo, arpionando al monte polpacci minuti ma forti come pioppi.

Mano mano che saliva la notte si faceva più scura, tanto che il sigaro gli illuminava la mulattiera meglio di una torcia, avvampando la barba tipo una foresta in fiamme. Monte davvero magico, udendosi preciso nell’aria che infreddoliva il ronzio pure fatato delle jànas.

In cima ci stagnava soffice un lago di nebbia. Con una fronda lo stuzzicò come d’acqua, aprendosi il vapore allo stesso modo, rabbrividendo.

«Ho avuto pazienza nel meno - determinò - l’avrò nel più!»

Ma era, la sua, volontà da goccia di pioggia pronta a evaporare al primo scaldare di sole. Non era che un mare di pece ardente, il mondo. E poi in Villacidro altri non c’era meglio di lui nell’arte di tormentare se stesso.

«Ge ses un’orixèdda prangi prangi!» udì voce.

Studacandèlas si voltò, ma il buio era pesto.

«Is orìgas m’incrèscint

Allora la vide.

Una vecchina tutta bitorzoluta e grinzosa, ma gli occhi pronti e gentili. Un lungo scialle ricamato d’oro intera la ricopriva come una tunica. I capelli avvolti in una pezza, i piedi nudi.

«Chi sei?» stupì il sagrestano.

Senza offrirgli ascolto, sfilò sotto sottana una tazza in sughero.

Vuoi colmare il mio bicchiere
le tue lacrime farmi bere
e cuore allegro e braccia sane
di ogni grano faranno pane

E recitato lo strano mottetto, gliela allungò.

Studacandèlas - chissà poi perché - ci pianse dentro caldi goccioloni.

«Paiono d’oro!» ci strabuzzò interi pure gli occhi.

«Paiono d’oro e d’oro sono - rifataggiò la vecchina - còia daranno!»

«Sì ma poi - alloriò quell’altro, che in Villacidro altri non c’era meglio di lui nell’arte di tormentare se stesso - di che sfameremo?»

«Anche il campo più desolato - rivelò la fata - dora i semi di grano, sotto i frutti d’erba e gli steli dei papaveri. Allo stesso modo nel cuore sepolto di sogni spunta la speranza, improvvisa e solenne quanto l’eco di valle!»

E bacchettata l’ultima fatagione, stella all’alba scomparve.

Il sole sorgeva, lento e sbadigliante, tessendo bisso sulle vette. Con lui la luce del giorno, fasciandosi l’orizzonte di ametiste liquefatte. Per le chine piovevano le ginestre in grappoli di accesi fiori gialli. Studacandèlas pure ci ruzzolò, verso sa corti de tziu Càschidu, a Chica un folto mazzo di rose pallide e atteggiate di seta. Aperte e languide, i petali rivoltati da caderci.

«Meri sei - annunciò - da filare tela solo alla felicità!»

E i grani maturarono, assieme a molte speranze.

Crederci? Riderci? Non è cosa mia. A me resta di dire che Studacandèlas non si rivide all’osteria, dove affexàva infimo vino e molte generazioni de lèpas ci avevano esercitato pazienza e taglio.

Fine quarto episodio

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata
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