L'osteria

Spesso accadeva che l’agone assumesse il carattere della battaglia, raro non ci entrassero le unghie affilate di Su Potecàriu de is Brebèis, capace mai di accecare la sbendata sorte di quell’anima candida del poeta.

Così una sera, mentre si giocava, capitò un fattorino con un telegramma indirizzato proprio a lui. L’artista frugò le tasche per ricavarci tres arriàlis - gli unici - che diede al ragazzo. Quindi a noi uno sguardo stupito, prima di strappare senza garbo la parte alta al piccolo involucro di carta.

«Per il calamaio di Calliope!» esclamò.

Il biglietto era inchiostrato di una strana filastrocca, che Fuèddus de Arrìu declamò ad alta voce, affinché tutti noi la intendessimo.

Piscia il cielo quando ha meta
di spacciare fiume il rio
non dà fiato il vento a Dio
quanto il soffio del poeta

Muovendo sguardo su ognuno di noi, quello sniffava pupilla per pupilla il tartufo della colpa, benché senza torto lo immaginasse già grattato sulle burle discole del farmacista.

Temetti il peggio e invece si vendicò di garbo. Filastrocca per filastrocca, declamata ad alta voce affinché tutti noi la intendessimo.

Il sentiero del dentista
mena vita sola e trista
tutto il giorno ci battaglia
con le pinze e la tenaglia

Ma a dispetto di nubi e dissapori, l’indomani furono amici più di prima.

Infine quella volta. Studacandèlas arrivò tirato a nuovo, di abito fustagno bruno e duro come cuoio, corpetto verde accollato adorno di doppia fila di bottoncini d’argento. Sui capelli lucidi di grasso sa berrìta, il viso verde del corpetto. Tra le mani tremava il rosario di madreperla brunita d’abito, orante la giustizia divina non riconoscendo quella umana. Pareva che, a misura del perire di luce, pure i pensieri annebbiassero.

Tutto gli era buio, fuori e dentro l’anima. Che ogni tanto portava la mano al capo come a schiacciarle quelle mosche pensanti. E sbadigliava sospiri che erano lamenti.

«Sposo Chica Triguscurìu!» disse vuotando d’un fiato il bicchiere.

In silenzio noi accostammo la sedia al tavolo. E lui raccontò ciò che delle sue stesse parole io inchiostro, in fedeltà scolara al dettato.

Espletato lo scampanamento e i servizi al rito mattutino, Studacandèlas mosse verso il monte, più vicino a Dio. Ma sulla piana volle lucertolare ai primi raggi del sole. L’ultimo pallore di luna smorzava un sorriso liquido e null’altro si sentiva se non il battito del suo cuore, che a lui sembrò delle stelle oramai invisibili. Si era sdraiato sotto un ciliegio, simile a un albero di coralli, sanguinante le sempre più decise stoccate dei raggi.

Sul verde le rondini ci guizzavano il loro volo spensierato, le code aperte a ventaglio, in stridi acuti e vibrati contro l’autunno che sarebbe tornato. Per il cielo vagavano in vapori fumosi nubi vagabonde quanto loro.

Durò l’estasi fino al pomeriggio, quando pure Villacidro se ne stava steso simile a un cane svogliato. Era la malìa delle sieste d’isola, voce insidiosa di una jana campestre che alitava l’infida ebbrezza della sonnolenza. Era lo stordimento delle stoppie fumate e dei fieni riarsi, inebriato sogno.

Dormì fino all’ultimo sole sul campanile di Santa Barbara, infino la luna sbrigandosi a salire. Prima gialla scintilla sulla dentellata muraglia di rovi, poi vitino sinuoso e tremulo, infine disco di indicibile purezza dorata. Che la volta rischiarò, a celare le stelle sotto il suo manto di bisso.

Stronàu montò il cavallo, manco lo avesse decottato l’intera distesa dei papaveri. Febbre che a sa corti de tziu Càschidu lo rovesciò di sella.

 

Fine secondo episodio

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata
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