L'osteria

Era costui così chiamato perché meri di una terra talmente arida da non spremerci sudore per niente. Meglio restarsene in cortile, dentro caldo di vino e fuori di sole, a scavare col tacco piccoli fossi e ricoprirli di punta. E convincersi di sbaragliare in mutètos i più bravi rimatori di piazza.

Cani arràtza de mandròni
ohj t’intzèrru deu a presòni
cùrris a fattu a sa brebèi
chi m’incrèscit scraxu e pei

Studacandèlas si risvegliò sul guanciale morbido e tiepido, carezzante la fresca dolcezza della mano che sentiva sulla fronte. Di Chica, che come il padre doveva il nomignolo a quella terra seccata da Dio, forse per lontani peccati. La tipica bellezza isolana, Triguscurìu, sapore e sentore orientali. Naso vagamente aquilino sotto gli occhi lunghi e lucenti, verdi come due acini di uva matura, le guance colorate e pregne. Di primitiva e naturale eleganza, blusa rosa pallido intramezzata da strisce di vellutino nero che legavano al collo un vivo incarnato. I capelli crocchiati e scoperti.

«Si sente di alzarsi?» chiese, dita intrecciate e curva come una badessa.

Lui accennò di sì, e in gambe incerte ed esili che lasciavano vuoti e gonfi i calzoni sui ginocchi la seguì nel salone arredato del lusso chiassoso dei printzipàles. Seduto, gli offrì un bicchiere de binu arrùju come sangue.

«No, grazie - rifiutò in sorriso - temo possa farmi male!»

Lei fu mortificata a vedersi respinto il segno della buona ospitalità. Allora dalla credenza - quella elegante cogli sportelli di vetro lavorato - estrasse una luccicante bottiglia di cristallo.

«È moscato vecchio - assicurò - miele di favo. Questo sì, le farà bene!»

E sorridente versò nel calice pure di cristallo, che sembrò di perla gialla. Lui lo sollevò in segno di salute, incontrando di Chica lo sguardo. Lei calò di palpebre e lui se lo sorseggiò quel piacere intenso e raffinato, a farselo durare tanto gli fu voluttuoso. Che lei pure ne rabbrividì.

In quella casa Triguscurìu stava chiusa che manco una suora al convento. E ci pregava e ci taceva. E ci tesseva in fili di sogni morti. Non una parola di ribellione usciva però da quelle labbra che tenevano rossa l’illusione di baci appassionati. Che lui le avrebbe presa la mano e riportata al sudore della sua fronte. Invece riempì e ribevette, in unico affrettato sorso.

«Ora davvero potrebbe farvi male!»

«Si è fatto tardi!» distolse Studacandèlas, alzandosi.

E fuori della soglia, sotto il pergolato di fitti pampini verde intenso da cui trapelavano curiose le occhiate di stelle, gliela prese la mano minuta che tremava delicata al pari di una foglia di passiflora.

«È notte come voi soave, Chica. Vi sia lieta!»

Le labbra degli astri le scesero sul viso simili a una pioggia di baci ardenti avidi e sconosciuti. Arrossì di vergogna e di piacere. Allora di nuovo chinò le palpebre sulle gote per poi voltare rumorose is cratzolèddas e rientrare in casa come la santa in chiesa. Ma la notte di preghiera non bastò alla vertigine del sogno peccaminoso. Fuori, la luna alta e purissima segnava il sentiero come un fanale di bicicletta.

«Tornerò domani sera!» si ripromise Studacandèlas.

Ma era, la sua, volontà di una goccia di pioggia destinata a evaporare al primo scaldare di sole.

«Un sagrestano sei, che una palla ti trapassi il cuore!»

Era un mare di pece ardente, il mondo.

«Che ci mancherebbe per vivere? Lo schidòne della carne rubata?»

Si sentiva piccolo e debole, costretto alla lotta per la vita. Poi in Villacidro altri non c’era meglio di lui nell’arte di tormentare se stesso.

Fine terzo episodio

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata
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