L'osteria

Al tempo che asini e buoi conducevano uomini in berrìta, in una vecchia casa nella parte più alta di Villacidro affexàva un’osteria di infimo ordine. Due stanzacce sporche con poche seggiole sventrate e qualche tavolo su cui parecchie generazioni de lèpas avevano esercitato pazienza e taglio. Un profumo acre di vino accoglieva il visitatore audace e lo faceva cadere di peso sulla sedia, rischiarato viso e anima alle seduzioni della scollatura di Davanzale, la bella nipote del panciuto oste.

A uno di quei tavoli, sotto il tappeto liso di verde e di dispiaceri, era d’uso la sera raccogliersi attorno al fiasco una combriccola di quattro amici.

Uno era Studacandèlas, giovanotto rubicondo e muscoloso, di volto largo e tagliato in rughe precoci e profonde che manco cicatrici. Ma sulla fronte gli occhi cielo di primavera rivelavano l’ingenuità timida della sua anima, smarrita su questa terra. Gradito al primo paccare di spalla, solo diceva il necessario. Temeva l’amore e pertanto le donne, forse del troppo servire messa che gli aveva reso con su dìciu la castità forzata.

Un altro era Su Potecàriu de is Brebèis, il farmacista di paese, nei casi più estremi il dentista. Di natura esuberante, chiusa nel corpo esile e nel viso affilato. In schizzare di gesti e d’occhi, chi l'avesse scorto ciondolare per via la notte col sigaro a lato di labbra, si sarebbe affrettato a serrarsi nel paletot e svoltare per altra via. Tanto ingannano le apparenze. Che dietro l’esteriore spavaldo, sotto lo scoppiettio delle frasi argute e il fuoco degli amori audaci, palpitava cuore aperto a ogni bontà. Le donne sbattevano palpebre al suo passare, gli amici pronti a battere per lui moneta falsa.

Il terzo era un poeta. Sissignori. Un poeta vero e proprio, anima fanciulla sotto il temperamento aspro, sprezzante i ceppi della vita sociale. Che a faticarci un po’, su quel telaio, avrebbe potuto tesserci carriera. L’ombra sua lunghissima, proiettata di luna nelle amate serene notti, solo carpiva segreti al suo pulsare di cuore. Talvolta di labbra profferite e rivelate agli uomini. Che i più sciocchi ne sorridevano, a loro dovendosi il nomignolo Fuèddus de Arrìu, aderito più di una pelle.

L’ultimo era chi le inchiostra, queste memorie, personaggio di cui meglio è tacere che stare a dirne troppo.

Tenevamo lì le nostre adunanze con la scusa di giocare a scopone e dare fondo al fiasco, in realtà perché sentivamo il bisogno di stringerci l’uno all’altro in comunanza di affetto e bicchiere, l’uno e l’altro mai trattenuto dalle divergenze interiori. Tuttavia il benedetto scopone aveva assunte le proporzioni di un affare di Stato. Indimenticabili e indicibili le smanie del poeta dinanzi a un sette di quadri a sbarrargli gli occhi, sotto il tavolo le pedate al compagno di gioco a che non andasse sprecato. Si badi. Calci senza malizia, ognuno sapendoli, chiusi nel vuotare di fiaschi gravato su chi - vinto o sconfitto - quella sera tintinnava di saccoccia. Va confessato che in più occasioni il problema si mostrò spinoso, comprensivo sempre l’oste, divertito a vederci indemoniare sulle carte.

Solo Studacandèlas, per via della presunta sottana, rimaneva impassibile o al più arrossiva del rimprovero compagno a una giocata sbagliata. Una sera però montò in furia, causa Fuèddus de Arrìu che lo aveva coperto de frastìmus a rinfacciargli la disfatta.

«Sai chi lo paga il vino, oggi? - sfacciò - Io, anche se ho perduto!»

Ma a dispetto di nubi e dissapori, l’indomani furono amici più di prima.


Fine primo episodio

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata
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