Filatori di lana

La sera era pregna e l’altopiano già incupito delle ombre che allungando strisciavano - parevano serpi - verso i colli lontani. Antonìca ci avanzava lenta fra quegli arbusti di macchia spinosi e fitti.

La notte era scesa silenziosa, manta sforacchiata di stelle, quando giunse alla pietra puru stampàda. Ginocchioni passò il pertugio, non udendosi in quell’attesa che i battiti tambureggianti del suo cuore. Giammai sarebbe tornata da meri Arremùndu senza le capre.

A un tratto l’interno della grotta brillò manco ci si fosse rintanato il sole. E le apparve, simile a un fuoco fatuo, un viso di donna sul corpo di cavalla. Risplendeva un sorriso raggiante.

«Io sono la fata di questo luogo sacro - rivelò - bene accetto è chi lo visita se un dono mi reca. L’hai portato, Antonìca

La giovinetta offrì il bastone di ginepro intagliato.

«Non ho che questo!» sconsolò.

«È molto bello - gradì la fata - sei gentile e generosa. Le tue capre sono al sicuro. Arremùndu le ha contate in ottanta, che dieci hanno nel frattempo partorito. Puoi ritornare!»

«Ma è notte!» intimorì Antonìca.

«Non temere, vai!»

L’ordine parve alla pastorella perentorio più che rassicurante, ma seppe ringraziare delle launèddas ricevute.

Non mentiva la fata. I magici istanti trascorsi nella grotta avevano filato all’arcolaio del tempo la notte intera. Fuori, l’alba stendeva sulla piana un velo argentato di luce. Antonìca si sentiva leggera di nuvola e saltellava verso il villaggio per fermarsi di botto - statua di sale - al gracchiare della risata di Barrosànna.

«Chi bestia nasce - arrogantò - bestie non può guardare!»

«Oh bella - stupì l’ingenuona - e perché?»

«Perché le capre di meri Arremùndu sono da oggi a me affidate!»

Antonìca voltò di spalle e si allontanò a lestru, celando le lacrime nei suoi lunghi capelli biondi.

«Tornerò a Villamar - risolse - che se non abbondano denaro in saccoccia, dal cuore traboccano bontà Perdu e Grazianèddu

E cominciò, parendole eccellente risoluzione, a soffiare alla bella e meglio nelle launèddas. Quelle si credettero piffero, ed ecco le capre muoversi in fila per due più ordinate di una scolaresca, che all’uscio dei due filatori di lana parve giungere anzitempo il patrono in processione.

Pitìcu su dannu loro accorso. Che il vecchio sfilò di cappelliera sa berrìta e dal chiodo su baculèddu, solito la sera raggiungere a quell’ora gli amici in vineria da tziu Barrìli, per rincasare barcollante fatta notte.

«Ddu pàrrit momèntu de buffài?» osò il figlio rimarcare al babbo.

«Bandu a Lunamatròna - ratificò quello - no bollu cèrtus cun nisciùnus

«Facciamoci almeno raccontare!»

Perdu riappese sa berrìta alla cappelliera, alla parete su baculèddu.

E Antonìca raccontò.

«Detto te l’avevo!» ne gongolò Perdu.

«Qui deve venire cussu scuminigàu!» scurì Grazianèddu.

Neppure consumò il moccolo dell’ora, meri Arremùndu.

«Tornatene - promise - e ti dò a guardare puru le pecore!»

Che quando Barrosànna andò a protestare, bastonare dai servi la fece.

Ne bastò fortuna per tutti. Che alla tosatura Antonìca offerse la lana agli amici e quelli poterono filare i guanti al coro delle vergini, da renderne in abbondanza a meri Arremùndu.

Quanto a Barrosànna, che Antonìca volle guardiana in seconda, non osò più azzardarle dispetti e seguitò a odiarla in segreto.

La morale purtroppo è corta
che l’invidia non è mai morta

Fine terzo episodio

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata
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