L'organetto

In quella festosa baraonda, al banco di Lucilla si avvicinò una maschera dal faccione butterato, gli occhi cilestri enormi e affossati sotto i capelli di fune annodati come gomene. Armata del suo chitarrone intarsiato tenuto a tracolla che manco un fucile, caracollava parendo avere fatto brulla alla Sfinge dell’esistenza, per vederci le cose di un mondo tutto suo.

«Voi preti e bigotti - allumava sofismi - che sempre custodite in saccoccia una giustizia da riempire, riempite le mie tasche vuote!»

E ne mostrava la scadente stoffa interna forata.

Lo seguiva da presso una seconda maschera col naso a punta, il faccione picchettato di macchioline nere, e le pupille - puntini anch’essi - perdute nel mare nebuloso del glauco. Armata di solìtu attaccato alla cintura che manco una leppa, scrollava di spalle e si sbadigliava una fame da lupo.

«Voi fabbri e maniscalchi - masticava cavilli - che mai vi difettano un paio di tenaglie da spalancarle fauci, spalancate le mie mascelle serrate!»

E le mostrava vuote e desolate quanto il piattino del mendicante.

«Ve li portate appesi per figura di maschera, quegli strumenti - ne sorrise Lucilla - o ne capacitate musica?»

E in segno di sfida sfilò di sotto al banco il guanto dell’organetto.

Leste d’orgoglio, quelle due sfoderarono chitarrone e solìtu alla stregua di pistoleri, perché l’arrangiato trio desse via a un concertino così gioioso e giocoso che la calca dei Samassesi prese a dimenarsi in urla e salti a mo’ di danza tribale. I costumi delle maschere non erano più - in quel turbinio colorato - le stinte e fruste vesti appese ai chiodoni del cencivendolo, ma scintillavano sfacciataggine da teatro d’Opera. Vetri a barrosàrsi brillanti, latte in atteggio d’oro, zoticoni da credersi damerini al ballo di corte.

Seguitò fino al tocco di mezzanotte, fiaba per davvero. Quando, esaurito l’incanto, zucca si rifece ogni carrozza e tacito castello l’umile villaggio.

«Avete da coricare?» domadò Lucilla ai due compari mascherati, parendo le sue parole - nel deserto della piazza - stridere di civette.

«Giungendo stamane al villaggio - rivelò la maschera col chitarrone - si è noi ammirata un’antica palazzina!»

«E tanto abbiamo sognato di ristorarcene!» aggiunse quella col solìtu.

Lucilla ne accese sorriso, compiaciuta.

«Siete fortunati - arrossì - è casa mia!»

E ce li condusse, ciocco sempre pronto alle vampate del cuore.

«Sono le stanze dei miei fratelli partiti tanto tempo fa - arse mostrandole agli ospiti - ognuno scelga la propria!»

E nel ricevere d’inchino la cordiale riconoscenza, assai la sorprese vederli dirigersi con sicumera uno in una e l’altro nell’altra, senza giocarsele alla morra o a dispari o pari.

«L’una o l’altra - pescò al pozzo della verità popolare - per me pari sono!»

E ammantando pure la fantasia fervida, si apprestò a dormire.

Ma uno strano presentimento si fece tarlo dispettoso, più del picchettare del vecchio telaio, che filò insonne la tela bissosa del mattino.

«Questo è profumo di pane caldo e caffè!» stupì più che ai riflessi violetti dell’alba di quel mercoledì viola anch’esso.

E scese le scale verso la cucina un poco immusonita, ma con l’anima che di contro ne gioiva, quasi che la tavola non imbandisse prelibatezze allo stomaco soltanto. Seduti infatti, ci luccicavano occhi i suoi fratelli.

«Sia la nostra casa aperta al bisogno - le aveva testamentato l’ultimo suo mattino il vecchio padre - ogni giorno lieta nell’attesa del ritorno, perché sia pace e concordia. Suonale sempre, in faccia alla disarmonia!»

E Lucilla imbracciò l’organetto.

Fine terzo episodio

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata
Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

← Torna all'elenco degli episodi

FacebookFollowersYoutube white Instagram white Twitter

 

 

WhatsApp

Medio Campidano in breve

 

Appuntamenti di cultura, incontro, socialità

Lun Mar Mer Gio Ven Sab Dom
1
2
4
16
17
18
24
26
27
29
30