Le tre sorelle 

«Attendi il cocchio papale? - spazientirono richiamandolo i militi, giacché esitava - Porta dentro la carcassa pulciosa!»

E lì gli venne offerto un distillato di vinacce, robaccia per soldataglia.

«Possedete ardire - affettò il conte - e infuocata promessa. Vi ascolto!»

Rotondava il faccione come una grigia maschera di teatro, la corta barba ricciolosa, le labbra grosse spalancate e gli occhi enormi e vuoti.

«Figlie di re ardiscono alla vostra eccellenza, colore e fragranza di grano posseggono però le mie tre figliole!»

«Stolto sarebbe dubitare di cotanta sicumera. Mi onorerò pertanto di una visita in casa vostra, domani l’altro al desinare, giorno del Signore!»

Il vecchio ruzzolò su San Gavino parendo adesso volare, le ossa slegate dei bei tempi. Che in unico fiato annunciò alle ragazze la lieta novella, da quelle compiaciuto in masticata gioia, sapendo del bellimbusto le bravate meglio dei blasoni.

Indossata a ogni modo la veste della domenica, dovutamente accolsero il nobilotto al rinnovarsi di sole, rilucendo ai suoi raggi quanto tele di bisso.

«Elevassi preghiere ad Allah - estasiò il rampollo - tutte vi sposerei!»

Ma vollero l’uso e il credo antichi toccasse a Giacinta, la maggiore.

Il tempo che stabilì il curato, poi il marito recò la moglie al Castello. E lì le cinse il collo di una rosa in ginepro, la stessa che il contadino aveva per le nozze sue intagliato all’amata e defunta consorte.

«Adorata - adulò - la dimora è tua, e di essa i servi. Ciò che possiedo tu lo possiedi. Solo ti è proibito salire la torre più alta!»

Promise, l’innamorata sposina. E mantenne, da scorrazzare felici e veloci le pariglie dei trenta giorni, a compiersi anno. Però al novello Gennaio lui partì, chiamato alla cura di lontani possessi.

Ma prima di andare, fu seta delicata sul caro volto rigato di lacrime.

«Non piova sul mare dei tuoi begli occhi - le sorrise - quaranta giorni sono lo sbadiglio annoiato dell’eternità!»

«Per me il deserto di nostro Signore!»

Prolungandosi però l’assenza oltre il convenuto, convenne Giacinta che il Salvatore - perfino lui - patì la sete. E risvegliatasi forte in lei quella della curiosità, salì l’arrotolata spirale della torre proibita.

«Santi Numi - inghiottì l’urlo - questo è l’Inferno e quello è mio marito!»

Proprio lui, che demone incrudeliva atroci tormenti sulle anime dannate, in corna e zoccoli e coda.

Impazzito il cuore, non persero ragione le gambe. E affondata la chioma bionda sul guanciale, cercò ancora conforto nel pianto, fino a inaridirle gli occhi. Solamente allora riebbe luce da scorgere una via.

«Fingere di non avere veduto - risolse - questo farò!»

E tutto sommato le parve, a reggerle l’animo, una buona pensata.

Ma tornato dal lungo viaggio, si avvide quella scorza di diavolaccio della rosa fumigata al rogo inestinguibile della colpa. Che a non crederci, parve nientemeno dolersene.

Ma l’uomo, in lui, non la vinse sul demone.

«Vino spunto vi scopro, amata - sbuffò infine zolfo - traditore come tutte le donne!»

«Come osate? - sniffò quella solite lacrime - Volo anima leggera di cirro!»

«Conosco il vostro peccato, quello che vi dà peso e febbre. Meglio però di me state, che devo portarmelo addosso!»

E priva di pio conforto, viva la rinserrò sulla torre dell’espiazione eterna.

E alla torre, come al cuore, rinserrò la porta di tutta mandata.


Fine secondo episodio

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata
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