Le tre sorelle 

Schiumando il sapone dei secoli nella bagnarola del tempo, traboccati ci sono gli anni in cui sbracciava a San Gavino un vecchio contadino.

Calato aveva la moglie il sipario degli occhi, ma nelle tre figlie ne serbò lo sguardo, incanto di nubi al sonno del sole. Giacinta, Violetta e Gelsomina, prolungato respiro di primavera sull’inverno della sua esistenza.

Soltanto incupiva su quelle corolle assolate - nembo greve di pioggia - il nugolo degli aitanti giovanotti di paese, api sempre ronzanti ad anelarne il nettare e a non farsi marito. Avanzava, scostumato, il tempo nuovo.

«Cuore forte contro la sorte!» gongolavano i ganzi.

«Che sarà dell’amato giardino - doleva dal canto suo il buonuomo - senza che seme in sacramento lo fecondi?»

E sul punto anche lui di cogliere il traguardo nella corsa della vita, ridiede vigore al passo e mosse di baculo verso il monte, balia silenziosa che si cullava stretto - bimbo addormentato - il Castello di Monreale.

Lo abitava un vezzoso e giovine signore, assieme a quadri e velluti. E una nidiata di lacchè. Stipate le scuderie di purosangue, le cantine di nettare pregiato. E una messe di lavoranti. Viziato e guastato alla prima infanzia, sciupava carezzato di molti fiori delicati, carte e dadi i suoi soli saperi. E una fiumana di fannulloni a tenergli bordone.

In tutte le case e in tutte le piazze di San Gavino, dove più che altrove il titolato soleva scarrozzarsi, era un unico timorato vociare.

Se nettare in botti si mesce
patto all’Inferno si annota
che a diavoli e osti rincresce
la coppa che lenta si vuota

Perciò a incocciarlo per via, stretto stretto nel velluto azzurro e la cipolla nel giustacuore, gli uomini calavano la coppola sulla fronte e le donne si segnavano. L’indomani di penitenza a battersi e ribattersi il petto gli uni, a snocciolare corone le altre. Perfino il vicario serrava lesto il portone sul muso ligneo del santo patrono, che nome battezzava al villaggio.

«Possa lui scorticarti il nasone!» imprecava al cuore, che serrato in petto godeva - almeno lui - di esternare libero dai vincoli di sottana.

Ma non di particole si sfama l’angustia, raccogliendo il massaio le briciole della speranza sull’impennata del maniero. I sassi uno per uno gli faceva contare la sua schiena curva, ma quando scorse le torri non gli impedì di drizzarla, la soma della speranza. E ululò al vento la sua presenza, lupo in azzannata presa di luna.

«Che vuoi?» gli giunse dai torrioni, peggio di una fredda folata.

«Ho da parlare al vostro padrone!»

Le gelide labbra del Maestrale nuovamente soffiarono un ridere sguaiato, uguale alla rubiconda e ciarliera comare di anello.

«Vengo a recargli destino e moglie!» non si scoraggiò il vecchio.

Brezza che finge tempesta, il riso si arrese brusio.

«Dio l’abbia in gloria - lui intestardì - se già non gli affondano in cuore le grinfie di Satanasso in persona!»

«Aspetta dunque, o vattene in malora!» franò borbotto da là sopra.

Come nulla fosse, quello si avvolse nel mantello nero di orbace e attese. Silenzioso e paziente come uno spuntone di roccia, a plasmare il pietrisco dei secondi il cippo stagionato dell’ora. Quindi il cigolare lento del ponte levatoio, simile allo sgranchirsi di braccia dopo un lungo sonno.

«Dlong! Dlong! Dlong!»

Allo zappatore parve gli scatenacciasse sul volto il ponte per l’Inferno.


Fine primo episodio

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata
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