E lì distese rivoluzionario sguardo alle rose che incendiavano il volto della tenuta, simile a un tramonto inesauribile, risoluto di contentarla l’amata figliola. Allora di dita e di taglio sapienti, non una ma addirittura sedici ne troncò di netto, una per ogni filiale anno da rallegrarle in dono. Quelle a spetalare e perire, questi a colorire e proliferare. Vite per vita.
Pare che perfino all’Inferno la noia imperversi, obbligando le bocche allo sbadiglio. E poi quel calore, insopportabile ed eterno. Su tali e più segrete ragioni sovvenne a un giovane satanasso di lasciare l’Oscuro Abisso una qualche paiolata di secoli, per spassarseli uomo fra gli uomini.
Detto fatto. Scodato, scornato e szoccolato, infilò moriture pelli di pecora per sedere in agio maggiore sopra un grosso carro a buoi.
Caso volle, proprio a Sanluri recava. Che appena ci fu giunto, gli riempì le narici un profumo intenso di pane e fieno venire da basse case di paglia e terra battute. Per le strette viuzze snodavano come in santa processione uomini affaccendati e sudati, la vanga sulle spalle larghe e diritte. Belle e appetitose apparivano le ragazze, nudi i piedi e i polpacci, il sangue vivo e sano che paonazzava le guance e ricolmava d’avanzo i seni danzanti.
Il diavolo ne fremette. Troppa la serenità e la gioia fra quella gente umile e semplice. Da necessitargli, pressante, un rimedio efficace.
«Dannato diletto è la donna - sbuffò gonfiando le nari come palloncini per la festa - mi ami, e anime per tramite suo pescherò a strascico!»
Intanto da rimorchiare subito era quella del conte, spinosa più delle rose colte dal contadino, sul fatto colto anche lui.
«Come hai osato? - corrucciò il padrone - Ti toccherà morire!»
«Compatite - giustificò quell’altro, morto più che mezzo dalla paura - ma se stille vermiglie galleggiano sull’oceano del vostro rosaio, stipati panieri quelle sedici sono degli anni della mia Lucrezia!»
«Sedici - ghignò il conte, contandoseli sulle unghie alla stessa misura dei denari - recala domani a palazzo, e per questa volta non ti assaporeranno le mute dei miei alani!»
Così risoluto che non lo persuasero lamenti e preghiere, se più nero della tenebra rincasò Gregorio, mordendo tuttavia alla figlia un sorriso come il peggio dei sigari. L’anima pareva zoppicargli al pari della gamba.
«Ecco le tue rose - porse - felice compleanno figlia adorata!»
Ma era più stravolto di un morto profanato.
«Siete forse malato, padre?»
E chiedi e domanda, di lacrime infine il poveruomo vuotò le brocche degli occhi, da travasarne il catino del pianto.
«Rendo nero tutto ciò che tocco - lamentò il povero padre - peggio della polvere da sparo!»
«Risana il malanno chi possiede il rimedio - oracolò Lucrezia - all’alba mi recherò al Castello e onorerò la promessa!»
Sul maniero ancora assopito, la luna sbiadita appariva simile a una testa rubiconda ed enorme arricciata da una folta capigliatura di rovi. E come il padre, risoluta a compiere chissà cosa, pure Lucrezia lo raggiunse. Il suo cuore cigolava più del levatoio che lento si abbassava.
Fine secondo episodio
Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata
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