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In un tempo che a Sanluri zappare la terra era essere servo, uno scorato bracciante allevava con la fame l’unica figlia, prossima all’età da marito. Graziosa e garbata, era il ritratto sputato della povera madre, affannata così tanto nello stiparla al mondo da doverne uscire lei anzitempo.

Se poverello era il contadino, della stirpe dei Giudici di Arborea era ricco il conte, padrone di ogni zolla di terra fin dove all’occhio riusciva come un vomere di affondare. Malvagio non era, gentile neppure. Un padrone, da avere e da comandare. Bigi i capelli ma vigoroso, vedovo era anche lui di blasonata consorte che il figlio maschio non era stata buona a sfornargli, da sfiorirne l’antica casata. Due femmine sì, maritate a dovere dote alla mano e appresso ai mariti in opulenti terre, lontane altrettanto.

Il giornaliere si chiamava Gregorio, come il santo cui i genitori lo avevano affidato. Ma Magno di meno, si zappava e sudava l’aspra terra del conte. Come in tanti, d’altronde, fra quelle lande. Lui però, di tutti il più vecchio, ingroppava onere di recarsi ogni sera al Castello per riferire del proficuo lavoro concluso e riceverci non cortesie ma la sfilza delle incombenze da sbrigarsi il giorno appresso. Dal lunedì al sabato, e la domenica di Dio.

Pagato a giornata privo di scapricciarsi il cielo, a Gregorio non pesava sui pantaloni che il bisogno quando i campanari del tempo dindondarono alla giovinetta lo scoccare dei sedici anni. Lei non svelò animo di mortificarlo oltre, a tanto provvedendo terra e padrone.

«Abbondo di scialle, padre mio - compatì - certo mi accenderebbe di più il volto una infuocata rosa rossa!»

«Della tua mamma mostri il viso - commosse il vecchio, comprendendo - ma più ancora ne palpiti il cuore caritatevole!»

Il poveruomo, sfottendoli la sorte ai contadini, ebbe da chinare la schiena di soverchio in quel giorno. Poté dunque lasciare il Castello che il sole si era bello che dormito da un pezzo, infagottandosi di fondo al mare come sotto al tepore della tramontata coperta.

«Già ne hai avuto fretta di coricarti - gli rabbiò Gregorio - cani a morderti le brache avevi, battifiacca di un astro?»

E issò alto il forcone dell’intero braccio, parendo volendo infilzarlo manco fosse un giallo covone dell’improdigo proprietario.

Ma non era mica servo il sole, da obbedire al padrone come lui. Lo afferrò tuttavia un pensiero insolitamente libertario tra gli agricoltori, allevati al seddòri indurito dell’obbedienza e della rassegnazione, ben persuaso che qualcuno dovesse risarcirlo del danno. Stella o signore che fosse.

E non invitato, risoluto a compiere chissà che cosa, di soppiatto ci ritornò al Castello. Il cielo si era infittito di nubi, annerendo le pareti sicure. Ma le torri svettanti ne impigliarono più d’una sulle merlature, da avvolgersene civettanti il collo nudo di pietra. In lontananza, i lumi delle case parevano stelle rossastre ancora basse sull’orizzonte. Gregorio penetrò il maniero, piccolo e silenzioso come un falchetto fra le rocce spente di luna.


Fine primo episodio

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata
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