Pensioni

di Mauro Marino, esperto in economia

Tanto rumore per nulla: le aspettative, maturate nel 2021, di avere una nuova riforma previdenziale sono andate deluse.
C’era molta attesa l’anno passato per riformare l’invisa legge Fornero e l’opportunità era data dalla conclusione di quota 100. La contestatissima legge voluta dal Governo giallo-verde nel 2019 è arrivata infatti a scadenza naturale alla fine del 2021 e in molti ritenevano che l’anno da poco lasciato alle spalle fosse l’occasione giusta per dare finalmente agli italiani una nuova, buona, equa, strutturale e duratura legge previdenziale.

C’era molta aspettativa nell’esecutivo Draghi ma già pochi giorni dopo il suo insediamento si è visto che le premesse non erano positive. Il governo nei primi mesi di vita per quanto riguarda l’aspetto economico e sociale ha dato priorità dapprima alle politiche attive sul lavoro, poi ha affermato di aver nominato due commissioni l’una per determinare i lavori gravosi e usuranti e l’altra per vedere se c’erano le condizioni per operare la distinzione tra assistenza e previdenza e che solo successivamente si sarebbe potuto parlare di previdenza.

I lavori di queste due commissioni si sono protratti per diversi mesi e soltanto quella dedicata ai lavori gravosi e usuranti ha completato quanto richiesto. L’altra, provocando molto stupore soprattutto da parte sindacale, è arrivata alla conclusione che oggi non è possibile scindere la previdenza dall’assistenza dal momento che le caratteristiche delle due componenti sono mescolate l’una con l’altra e complementari.

Questi ritardi hanno fatto inserire solamente poche modifiche in ambito previdenziale nella legge di bilancio che senza alcuna discussione parlamentare è stata approvata il 30 dicembre 2021.
Di tutto ciò che era nelle aspettative sono state approvate solamente la quota 102 (64 anni di età sommati a 38 anni di contributi) e l’Opzione Donna (possibilità di accedere in anticipo alla pensione), è stato inoltre implementato l’elenco di lavori usuranti per accedere all’Ape Sociale (Anticipo pensionistico sociale ) e sono stati estesi i contratti di espansione (esodo incentivato) anche per aziende con 50 unità di personale.

Tutte queste misure sono state approvate solamente per l’anno 2022, quindi, in sostanza, tutto è stato rimandato all’anno corrente che diviene così l’ennesimo anno decisivo per il varo di una vera riforma previdenziale.

Quindi niente flessibilità in uscita a partire dai 62 anni o in alternativa la possibilità di uscire dal mondo del lavoro con 41 anni di contributi, nulla per i molti giovani la cui storia lavorativa è caratterizzata da buchi contributivi e carriere discontinue, soprattutto nei primi anni di lavoro, nulla anche per le donne, per chi si occupa del lavoro di cura, per il riscatto agevolato della laurea, per l’implementazione della previdenza complementare, e nemmeno per chi è già pensionato.

L’esecutivo Draghi ha solo promesso una serie di incontri con le organizzazioni sindacali (già iniziati) perché l’intendimento del governo sarebbe quello di inserire un eventuale accordo a partire dal Def (documento di economia e finanza) da presentare alle Camere nel mese di aprile, ma subito sono stati posti i paletti: i costi dovranno essere in linea con le direttive europee e il futuro previdenziale sarà nel solco del calcolo contributivo.

Una strada in salita, anche se ora, dopo l’elezione del capo dello stato e l’allontanamento del rischio di elezioni anticipate il cammino di una nuova legge previdenziale potrebbe riprendere. Ce lo auguriamo tutti.

Mauro Marino, esperto in economia © Riproduzione riservata

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