Nel confronto tra governo e sindacati sulla nuova legge previdenziale, che verrà approvata, come molti sperano, entro il 31 dicembre, c’è un aspetto che sembra marginale rispetto ad altri: attuare un altro semestre di silenzio/assenzo sulla scelta di aderire o meno ai cosiddetti fondi pensione.
In realtà è un argomento importantissimo che riguarda soprattutto i giovani o comunque tutti coloro che hanno cominciato a lavorare dopo l’anno 1996
Questi ultimi, infatti, per effetto della legge Dini, a partire da allora, avranno la loro pensione calcolata con il metodo contributivo. Un calcolo che è molto penalizzante per i lavoratori, i quali si ritroveranno dopo 40 anni di contribuzione, una rendita che a malapena arriverà al 50% del loro stipendio.
Da qui l’assoluta necessità di intervenire in aggiunta al sistema pubblico e integrare di una quota del 20-25 per cento l’assegno pensionistico, in modo da garantire ai cittadini una serena e dignitosa continuità di vita.
Questo risultato si potrebbe raggiungere mediante l’accesso ai fondi pensione. Il dipendente può destinare il proprio Tfr (trattamento di fine rapporto) a uno dei fondi delle varie categorie di lavoratori (fondi chiusi). Queste somme vengono investite in maniera prudenziale e alla fine della carriera lavorativa vengono riassegnate al dipendente sotto forma di assegno mensile. Esistono poi i “fondi aperti” che sono sottoscrivibili da chiunque, senza alcuna limitazione derivante dalla propria occupazione. Terza possibilità i Pip (Piani Individuali Pensionistici), che sono una forma di previdenza integrativa privata, gestita da compagnie assicurative.
Delle tre possibilità, quella più conveniente per i lavoratori è senza dubbio la scelta dei “fondi chiusi” in quanto il dipendente non effettua versamenti aggiuntivi rispetto alla destinazione del proprio Tfr. Un'altro aspetto importante è che tutti gli importi versati hanno una deducibilità fiscale fino a 5.164,57 euro annui. In pratica se si rientra in un ‘aliquota Irpef del 27 per cento si otterrà nel modello 730 un rimborso annuo di 1.394 euro, 1962 euro per chi si colloca nell’aliquota Irpef del 38 per cento.
Da ultimo, bisogna considerare i rendimenti. Analizzando il decennio 2011-2020 si nota che il rendimento medio dei fondi aperti è stato del 3,7 per cento, quello dei fondi chiusi del 3,6 per cento e infine, i Pip hanno fruttato il 3,3 per cento. Confrontando questi dati con il vecchio Tfr si evidenzia quasi un raddoppio di rendimento da parte dei fondi, rispetto all’1,8 per cento medio annuo del Tfr.
Pur essendo quindi molto più conveniente assegnare il proprio Tfr a un fondo pensione, in Italia questo strumento, a differenza degli altri Paesi Europei, stenta a decollare: motivo per il quale il governo in occasione di una nuova riforma previdenziale avrebbe intenzione di attuare un altro semestre di silenzio/assenso.
In pratica per tutti i nuovi assunti ci sarebbe il passaggio automatico a un fondo pensione di categoria anziché rimanere in regime di Tfr.
Chi volesse invece continuare con l’opzione Tfr dovrebbe esplicitare la propria volontà. Per incentivare ulteriormente questa opportunità sarebbe auspicabile che la deducibilità fiscale fosse portata al 50 per cento di quanto versato, fosse estesa la possibilità di accedere con più facilità ad anticipi in caso di necessità e fosse diminuita la tassazione finale.
Attuando queste misure agevolative si darebbe un fortissimo impulso a questo istituto, assolutamente necessario a integrare la pensione pubblica e a permettere alla terza età una serena e dignitosa esistenza.
Mauro Marino, esperto in economia © Riproduzione riservata