Pecore al passaggio

 Gonnosfanadiga - Riceviamo e volentieri pubblichiamo una lettera di Pinu Vacca, che racconta la storia di Maria

Questa, vi avviso, è una storia realmente accaduta e parla di fantasmi, quindi chi non fosse interessato passi oltre.

Ci sono momenti nella vita di ognuno di noi che meritano di essere ricordati. Spero di riuscire a trasmettere, almeno in parte, le emozioni che ho provato e ancora oggi provo quando ripenso a quei momenti, che sono rimasti impressi nella mia mente in modo indelebile.
So bene che, non essendo io Umberto Eco né, tanto meno, Alessandro Manzoni, non sarà facile trasmettervi le mie emozioni. Accettate la buona volontà.

Tutto quello che ho scritto è realmente accaduto, è tutto vero: non parlo per sentito dire, è una storia vissuta in prima persona.
La vicenda non si svolge in un castello scozzese e nemmeno in Transilvania ma, molto più semplicemente, in una banalissima e insignificante casa a due piani e quattro vani, in Piazza Olmo a Gonnosfanadiga, e i fatti risalgono all’inverno '57/'58: avevo quattro anni ma ricordo perfettamente tutto nei minimi particolari.

Posso dimenticare il compleanno di mia moglie e l’anniversario del matrimonio, ma questi accadimenti non potrò mai dimenticarli. Se avete dei dubbi sulla veridicità del racconto, chiedete ai gonnesi di una certa età (dai 70 anni in su) se è vero quello che sto per raccontarvi.
Chiedete se non hanno mai sentito parlare di certe presenze in una casa “de sa matt’e s’umu”, dove io sono nato e cresciuto fino all’età di cinque anni.

Abitavo con i miei genitori in quella casa, in attesa che la nostra, ancora in costruzione, fosse terminata. Essendo il nostro appartamento adiacente a quello del proprietario della casa, avevamo in comune il cortile e (poteva mancare?) il pozzo al centro del cortile. Stando a quello che dice la letteratura (anche medica), per la maggior parte degli esseri umani, l’infanzia è infelicità. In tutte le favole che si rispettino, infatti, non mancano gli orchi, i fantasmi, le matrigne cattive e di conseguenza i padri imbecilli che permettono alle matrigne di fare le cattive.

La mia infanzia, vi assicuro, è stata felice, merito dei miei genitori, ma merito anche di una mia amica: Maria, che tanto mi ha coccolato. Non che i miei genitori non lo facessero, ma con Maria era diverso: era più comprensiva, più complice, più disponibile, insomma lei era di più.
Mamma parlava con terrore di rumori e pianti dal solaio. Babbo, sdrammatizzando, parlava di topi in libera uscita, ma, con tono preoccupato. Io ascoltavo questi discorsi e non capivo il perché delle loro paure, capivo che doveva trattarsi di qualcosa di terribile perché mamma, quando mio padre era al lavoro di notte, chiamava a casa almeno due delle sue sei sorelle perché dormissero con noi.

Babbo ironizzava e scherzava su tutto, ma su questa faccenda era assolutamente più cauto. Io temevo le loro stesse paure, mi spaventava il fatto che a casa mia stava venendo meno la tranquillità familiare, che fino ad allora aveva sempre regnato.
Tutti i giorni, all’arrivo del buio, non potevo fare a meno di osservare il terrore di mia madre e la paura male celata di mio padre.

I preti a casa nostra non erano di casa, ma ci fu un periodo in cui venivano spesso a farci visita. Molto cordiali e prodighi di buoni consigli. Ma non bastò la loro presenza, le spruzzate d’acquasanta e gli esorcismi a far cessare il rumore e il pianto. Dopo qualche mese venne addirittura il vescovo a renderci visita. Neanche lui ebbe successo.

Non ho mai avuto paura né di presenze, né di rumori e tanto meno del buio, anche perché non sono mai rimasto solo: con me la notte c’era sempre qualcuno. Quando non era presente mamma o una delle mie zie, c’era sempre lei, Maria, la figlia del proprietario della casa.
Maria era una bella ragazza di circa sedici anni, capelli e occhi neri, lineamenti delicati, altissima, tanto che pensavo fosse sempre sopra uno sgabello. Aveva una particolarità: un leggero strabismo, che nulla toglieva al suo splendore, anzi le conferiva maggiore attrattiva. Vestiva sempre con un’enorme camicia da uomo, larghissima e lunga fin sotto le ginocchia, abbottonata fino all’ultimo bottone sotto il mento. Le maniche, troppo lunghe per le sue braccia, le coprivano completamente le mani. Profumava intensamente e delicatamente di fiori, ma non so dire quali. Forse violette, perché ancora oggi associo quel profumo a quelle notti.

Mi affascinava la sua calma, la sua serenità, mi parlava di luoghi sconosciuti e bellissimi, mi accarezzava senza toccarmi. Affabile, disponibile, dolce, gentile e premurosa come solo le donne che ti vogliono bene e ti amano sanno essere.
Questa era la mia Maria, la figlia del padrone di casa, che quasi tutte le notti veniva a trovarmi quando ero a letto e solo. La aspettavo, e se qualche volta non veniva a trovarmi, mi addormentavo tardissimo, spesso piangendo in silenzio perché la sentivo piangere e chiamarmi per nome in lontananza.

Ho scoperto solo da adulto che il proprietario della casa non aveva figlie, e che i miei genitori e le mie zie non hanno mai conosciuto Maria.


Pinu Vacca

Immagine in evidenza di Andrew Wilus da Pexels

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