Il parente serpente

Certo nel segreto del cuore più di uno mascherava l’invidia in profondere di moine, ma molti di più erano i padri a fare notte sotto al davanzale in lavagna della sua capanna, perché elargisse cura al maschio figliolame. Intzàndus via a ognuno de mutètu, a si dd’arregordài.

Babu non seu deu
e mi dònas su fillu
pagu òmini ti creu
de pòbudu cuntzìllu

Ma alla fine se li teneva, felice di forgiarli al mestiere antico del pastore e in uno a quello più vetusto della vita. Da stupirsene ogni volta della sua innata abilità a plasmarli e finirli all’esercizio dell’esistenza, deciso quale si sentiva di lottarla e sconfiggerla la vecchiaia. Tanto che il suo passo ci risonava lieve sulla distesa di macchia, destandoci come un’eco confusa, brivido di foglie alla carezza soave del vento. E gli pareva che l’opera sua si compisse più ineluttabile di un destino. Lui sì, Dèus.

D’altronde vero, era. Nessuno trattava le pecore di tale magnificenza. Le mungeva di mani pari a quelle del vasaio che cesella la creta. Le tosava alla stregua dal più estroso parrucchiere. Le sue ricotte e i suoi formaggi sfornavano raffinatezze di pasticcere, che a comperarseli pareva un treno la coda composta degli estimatori.

Solamente alla prova delle notti all’ovile, specie in quelle d’inverno senza luna - lunghe e gelide - il piglio dei discepoli smorzava uguale uguale ai lumini sotto al soffio sgarbato del vento. Inetti a svelarne odori e suoni, li scorgevano esseri mostruosi i saputi colli, avvolti in neri manti cui il fuoco alitava la vita delle sue enormi ombre danzanti. Ciascuno la filava allora per conto proprio senza fiatarla la paura, fino al divino incanto dell’alba, prodigioso pennello che rendeva forma e colore alle cose.

Infine lo scampanellare delle pecore e l’abbaiare del cane indicavano che era ora di riprendere il lungo lavoro. Poco male, se tutto di nuovo riluceva limpido e vero ai loro occhi riaperti al futuro che sapevano di pari fulgore, benché il sole sporgesse appena al lucernario del cielo.

Era quando pure tziu Mutètu giungeva del suo passo ciondolante, prodigo delle sue rime.

Noti infrìrat in s’ièrru
fogu stùrat a s’infèrru
e su celu sentz’ ‘e luna
sempri est prìngiu de fortùna

Ma ogni volta recava all’ovile carasàu cundìu, saputo che vuotato il sacco dell’anima dalla paura, de pani tòcat a preni su scafu che la contiene. Poi non dicessero che li affamava gli allievi quelle linguacce dei compaesani, biforcute alla stregua della biscia. E che proprio sul serpente tanto caro al pastore abbondavano di sibilare, anch’esse in celata resa di rime, baciate di Giuda.

Est citìu che giarrètu
su coròu de tziu Mutètu
e ddu nàrat dèpeis crei
mèllus cussu chi mullèi

Tant’è per la distesa di macchia tutta intorno all’ovile strisciava sfamato e protetto vai e cerca da quando, alla stregua de unu strintu de domu. Alla mattina tzìu Mutètu lo deliziava de unu gragàllu de lati appena munto, in segno di rinsaldata amicizia, perché seguitasse a preservarlo de is arròris e de sa tristùda. Lui sì - tziu Mutètu seu narèndi - pagu citìu.

A bi’ lepa su vicàriu
si fàit grogu che malàriu
tui m’agguàntas su dolòri
meda prus de monsignòri

Ne ridevano bonari i discepoli di quella sua mania, d’altronde poco più di una ingenua e superstizione. Da affezionarsi anche loro a quella bestiola soffiante, e perciò chiamata Sùasùa.

 
Fine secondo episodio

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata

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