Il parente serpente

Imbruniva a Siddi, il raccolto villaggio adagiato fra le ampie colline della Marmilla che segnano il confine con la provincia di Oristano. La tomba dei giganti Sa domu de s’orcu, per prima si faceva malinconica di penombre e spruzzi indefiniti, fremiti di profondi sospirati desideri a celare sorrisi e singhiozzi. Annottate ore, che in cima al maestoso monumento nuragico funerario sembravano più cupe, benché ardenti di palpiti e carezze. Forse perché buie di speranze, solo inebriate di sogni. Fino a che le larghe tinte d’alba scimmiottanti il crepuscolo non fasciano il cielo di stole vermiglie, gettando a spaglio sulle colture intere manate di fiori sfuocate di nebbia, che se ne biancheggia la distesa.

È l’ora in cui i fieri pastori muovono agli ovili, di passo lento sulla terra millenaria che ruba all’autunno sfusi riflessi d’ambra e le acque de is tres mìtzas ci paiono scaglie cascanti di pecorino.

Ogni santo giorno a mungere vita alle mammelle de is brebèis, tra di essi uno ricco ce n’era, cui il tempo aveva passato sulla pelle dura quasi una specie di rivestimento di rame che manco l’amata biscia. Òmini de meda sentìdu, era conosciuto anche a fòras de bidda come tziu Mutètu, causa il vezzo de fuedài sceti in rima baciata.

Viveva in una casupola proprio all’uscita del villaggio, di un’unica finestra col davanzale in lavagna ma il pergolato lussureggiante di pampini buono a ombreggiarsene il cortile. E lì al focolare, rigido nella tradizione vestiva sempre di nero, i calzoni di fustagno sotto il corpetto abbottonato stretto. Agli stinchi i gambàles e in capo sa berrìta, stringeva alla vita una cintura di cuoio e di fino intarsiata, bella po’ ‘nd’apicài sa lepa in manico di corno strappato al montone. Sopra incisa una testa di serpe con le fauci aperte, sputata la lingua biforcuta.

Intzàndus via de mutètu, a ricordarselo il perché.

A bi’ lepa su vicàriu
si fàit grogu che malàriu
ma mi càstiat de s’arròri
meda prus de monsignòri

Le credenze del tempo attribuivano ai rettili magici poteri, perciò pastori e contadini li tenevano propiziatori di fortuna e prosperità. E così il saggio pastore, che perciò non lo lasciava mai il coltello di lama affilata, benché mai gli venne utile di malusarlo.

Se lo portava ovunque, mancài col vestito buono de sa festa, po’ andài a sa còia e a s’intèrru, i capelli che pareva li avesse scolpiti su bentu tanto lo lanciava al galoppo su cuàddu, bistìu de pìu nièddu issu puru. Che ritto sulle gambe per le stradine polverose di Siddi, ognuno si scappellava più che al passaggio della Madonna delle Grazie. «Salùdi e trigu, tziu Mutètu!» auguravano becàcia fra le mani, ricevendo in risposta appena una compiaciuta scesa di fronte.

Acànta acànta de ‘ndi contài còranta, alto e imponente e unu tantixèddu de brenti, non peccava di esercitare ardito fascino sulle bagarìe de bidda. Tuttavia no si fìat coiàu. Intzàndus via de mutètu, a ricordarselo il perché. In italiano, perfino.

Veloce l’amore sboccia e muore
quanto d’inverno ogni timido fiore

Che a lui solo il fare pastore soddisfava.

Meda mi fàit prexèi
bogài lati a sa brebèi

Volete mettere? Vivere libero e selvaggio la natura libera e selvaggia, più solo di un eremita ma come quello da cercato. Chi po’ custu, pòdit essi, il gregge suo era tanto più numeroso di ogni altro.

 
Fine primo episodio

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata

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