L'organetto

«Acànta acànta di arrivare a Serramanna - affannò voce - vi ho riportato le vostre monete. Contatele e vedrete che non ne manca una!»

«Io sono la madre del Salvatore - sorrise la viandante - discesa sulla Terra per misurare il tuo cuore. E in verità ti dico che hai agito bene. Perciò ho lasciato a te la borsa!»

«Con quel denaro non rimarrebbe un solo straccione spoglio del suo abito nuovo - pensò Lucilla - né un affamato sdentato di pane fresco!»

E svelta devotamente genuflesse. Poi si acconciò lo scialle sulle spalle e ci caricò il fagotto, tipo gerla pigiata d’uva. Quindi raggiunse la palazzina più saltellante della gallina sull’aia, parendo non avvertirne il peso, già allestendo l’indomani il bancone nella piazza principale del paese.

«Hai spalato il tesoro - burlavano i Samassesi - o rapinato il postale?»

Ma tra i denti del cuore sputavano bestemmie che neppure i dannati.

Lucilla non insuperbì, ricoperta dello stesso scialle nero a righe azzurre e di uguale colore la stessa gonna plissettata, spoglia la sua casa. Ma per elemosine, neppure il re la eguagliava, parendo la sua casa un mercato tanti erano i mendicanti che riceveva a ogni ora di ogni giorno.

Quando però non chicchiricchia il gallo, starnazza la gallina. La sorella sì che seppe donarsi arie e atteggiarsi a signora, con le calze e le scarpe. Si poggiava alla ringhiera del balcone e a scorgere chicchessia chiamava la sorella ad arrecarle trucchi e cappelli, tutta smorfie e smancerie. Che a punirla la Morte indossò l’abito del giornaliere, prese la falce e segata la spigolò alla pari di un fascio maturo.

Lucilla pensò di avere sbagliato qualche cosa, pertanto invocò Maria. Che indossò l’abito del pellegrino, infilò le ciocie e prese il bastone forcuto dei viandanti.

«Mi hai chiamato, figlia mia?»

«Se i fatti si esplicano incerti - afflisse Lucilla - il pensiero pure si annoda confuso. In che ho fallato da doverne piangere la frivola sorella?»

In uno del Signore madre e sposa e figlia, Maria raccolse un sorriso - fiore sui fiori - in quel distendere di campo e di tristezza.

«Fatti sopravvengono che non presentano un carattere deciso e sensibile, così indefinito che la ragione non sa se negare o ammettere, se accettare o respingere. Ma tale incompiutezza del pensiero è lo stato di mezzo tra una fede ferma e una titubante. Risolverlo è la chiave di ogni verità!»

Le parve evasiva la Signora Celeste. Ma tornando alla palazzina sotto una luna rotonda e rossa come un’arancia di Villacidro, si alleggeriva di ogni disarmonia. Che perfino l’organetto, quella notte, cantò al nuovo mattino in tasti anch’essi risanati.

Al giorno novello le casette basse di Samassi parevano tanti agorai in fila, infilzati dalla miriade degli spilloni tiepidi del sole non ancora di stagione. Vociava pasciuto il martedì grasso, a serrare le spanciate del Carnevale e annunciare Le Ceneri, sbadigliante i quaranta giorni della misura prima di risorti denti. In trotobìas e angiòni arrustìu. Che morendo sulla tavola, al cielo belando assurge per la salvezza di ogni uomo.

Il bancone di Lucilla debordò di ogni bendidio. E durò fino a sera, quando il corteo di maschere chiassò animatissimo, riversata la folla dei paesani come la fiumana delle grandi piogge. Stipata la piazza di schiamazzi, lì il corso dell’umano torrente ostruiva per debordare dai calici di rigonfi flutti straripanti mosto e filufèrru. Sull’isola conta età di nuraghi questa festa a caldo di stelle, sfidata di mutètos e spifferata di launèddas e vorticata di ballu tundu. In pietra plasmata.


Fine secondo episodio

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata
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