L'organetto

Cuori nascosti di carciofo i giorni a Samassi, che nello spinato staccare di foglie colmano in tavola su levamànu del tempo. Punge, la foglia caduta, di quando in quello spiazzo arroventato del Medio Campidano sfogliavano la loro esistenza due mature sorelle rimaste signorine.

La maggiore si chiamava Lucilla, ma non le riluceva che il cuore, del resto scura e minuta. Appena fuori del villaggio che sapeva la sua sconfinata carità, abitava con la sorella una vezzosa palazzina, tanto vuota di futuro quanto stipata di storia. Ogni santo dì assisteva gli infermi e seppelliva i morti, levandosi il pane di bocca e gli stracci di dosso per darli ai poveri, vivendo di assoluta e rasserenata miseria. Che la sorella minore, gretta e pedante, dal canto suo condivideva in malevola rassegnazione. Nerina il suo nome, manco lo avessero appioppato all’anima sua.

«Che ci guadagni a servire peggio di una schiava? - cantilenava Nerina in ogni momento - Sposati, almeno tu, così avrai figli e marito da sfamare e da vestire. E sorella!»

«Non ho bisogno di figli né di marito - rimarcava Lucilla - che mi basta da amare il mio prossimo. La sorella risolva da sé!»

Erano cresciute con due più giovanetti fratelli, che la vita aveva disperso per strade diverse. E defunti in cupezza i genitori - cuore di carciofo come lei il padre paralitico, esterne foglie pungenti madre e secondogenita - in quella grande casa erano rimaste loro sole.

«Sia la nostra dimora aperta al bisogno - testamentò l’ultimo suo mattino il vecchio alla preferita - lieta nell’attesa del ritorno, perché tu sei la pace e la concordia!»

Lucilla sentì sull’anima il peso greve e nobile della predestinazione, e più che lo avesse davvero vergato il notaio, mantenne la promessa. Pertanto nella dimora che era di tutti conservò intatto il letto ai fratelli, l’acqua nel catino come da un momento all’altro dovessero varcare la soglia, sempre apparecchiata la tavola a dispetto della madia vuota. La sera, snocciolato piamente il rosario, rubava al chiodo sulla parete il vecchio organetto del suo papà e strimpellava il solito ballu tundu che un dispettoso tasto rotto faceva stonare. A ricordarle che ne rideva sempre, lui, compiaciuto.

«Suonale in faccia alla disarmonia, amore e carità!» replicava al fastidio di moglie e figlia minore, disarmonie anch’esse.

Sulla legnaia vuota non si accatastavano che anni, e in quella sera Lucilla incaponiva sul vecchio strumento la pure vecchia Ave Maria, quando una pellegrina bussò alla porta. Le supplicava asilo.

«Di cuore - spalancò Lucilla - ma male la passerete, giacché in casa non sapisce un grano di sale!»

E ordinando alla sorella di allestirle un giaciglio, la puntò di lanternino per osservarla bene. Le era parsa più vecchia, in quegli stracci. Meno bella.

«Per mangiare ho del mio - ringraziò la pellegrina - un giaciglio è quanto solo mi occorra!»

Si diedero pertanto la buonanotte, e ognuna nella grazia di Dio si coricò e si addormentò, anime soffici a dispetto dei cuscini.

Lucilla si levò che era ancora buio, prima a offrire il buongiorno, come da vangelo e buona creanza. Ma la viandante non c’era più. Sul guanciale, in vece sua, una borsa grossa e grassa di sonanti monete d’oro.

«Oh Signore dei poveretti - portò mani alle labbra - l’ha scordata qui!»

E per riportargliela se ne uscì di casa manco le avessero messo fuoco alla gonna, stravaccandosi sull’erba - lingua di fuori come un cane da corsa - solo dopo averla riacciuffata, molto fuori da Samassi.

Per la stanchezza, la poverina non poteva neppure mugolare.


Fine primo episodio

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata
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