Spazietto Bianco SopraTestata

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Cane Fantasma

 

Che scavando nel proprio orgoglio - ma a fundu a fundu - riuscito gli era di stare fuori del pinnèto, a guardia delle pecore. Più ancora in attesa che il sabato giungesse misericordioso a concedergli casalingo ritorno a casa. Il lupo, annusandone la presenza prima ancora di scorgerla, mugolando gli corse contro. Talmente andava di furia che sembrava sospeso per aria, da vederselo Pìsciapìscia franare addosso così come era certo facessero i fantasmi coi disgraziati incautamente soli sulla piana, la notte.

«Nostra Segnòra de is dolòris!» invocò.

Mille volte meglio affrontare suo padre e farsi squartare chi nimàncu unu procèddu, piuttosto che fungere da arrosto agli spiriti dannati.

E allora via, cuore e pisciònis, sulla via ruzzolata e senza respiro verso il teporoso villaggio tutto addormentato.

Ci pensò lui tzerrièndi che una surra de màcus - ita manèra - a svegliarlo di soprassalto. E tutto perché il cane, pensando seguitasse su spàssiu, gli ringhiava festoso ai garretti.

Di tanto avvenne che l’uno avanti e l’altro dietro piombarono in bidda a notte fonda, de aìci meda burdèllu chi nimàncu is campànas po’ su fogu, da buttarla intera a bàsciu de su letu.

«Agitòriuamachiàda Pìsciapìscia.

«Bau! Bau!» forsennava il cane, di rimando.

Sgarrettava di cavallo, il poveretto. Verso la chiesa, che su vicàriu sceti e l’acqua santa lo avrebbero salvato, per intercessione della santa patrona.

«Santa Vitàlia mia - invocava - ponìnci sa manu tui

Allertato tziu Angionèddu chi de cussu mali nàscidu del figlio si trattava, mancài abbruxèndi de sa calentùda affannò corsa alla chiesa anche lui, lì dove con fatica - lasciato fuori il cane - su vicàriu era riuscito a calmare il povero Pìsciapìscia terrorizzato.

A vedere il vecchio la bestia gli corse incontro, distribuendo equamente a padre e figlio le proprie canine effusioni.

«Chi dd’affèrru, a chini est stètiu!» infervorò il pastore.

E a ddu fai cumprèndi levò de buciàca sa lepa manna, facendosi di lama segno sul collo e imitando il suono de su sgannu con la voce. «Schgrrrr

Che i due birbanti, presenti come tutti a cussu teàtru fuori festa, presero a colare acqua fredda da tracimarci le secche del rio Cardàxu.

Quindi lo liberò, il cane, carezzandolo a lungo. Intzàndus derètu a crèsia.

«No ddu bis chi est su cani - digrignò al figlio - no ddi pòrtas bregùngia a timi de aìci? Ita òmini ses tui

Ma lo disse in tono talmente senza speranza, che lì nella piazza di chiesa nessuno osò più ridere.

Dal canto suo Pìsciapìscia di tanta vergogna si era fatto paonazzo, de aìci meda da venirgli sa faci tunda comènti a su soli calendìndi, chi su vicàriu non ebbe acqua santa bastante a si dda studài quell’onta infuocata.

E lo giurò a se stesso che giammai si sarebbe più riso di lui, in bidda. Se anche nessuno osasse farlo, in quel frangente.

«Comènti nàrat, mamài? - sigillò settembrina promessa - De binnènna, si sègat àxina e duènna

Detto fatto.

Pìsciapìscia ridivenne Cenzo e tziu Angionèddu poté rinserrarla di catene quella cagna di vecchiaia che già gli mordeva alle caviglie.

Ne venne che i vecchi, lì a Serrenti, ancora lo raccontano su fatu di quelle parti, dove integro arrotondava il nuraghe Cùccuru Turri e lo spirito di tziu Barròsu de cussu spàssiu ritrovò il cuore bogàu de lepa.

Che tessuta di tenebre la coperta, se la riposò in pace, l’eternità.

 
Fine

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata

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