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Cane Fantasma

 

Appena di lato alla grande piana del Campidano, su un poggio minuscolo chi pàrrit unu scrannixèddu fuori dell’uscio, ci stravacca fatica il raccolto paese di Serrenti. Simile a uno scialle ricamato, si scorge alle sue spalle la filiera delle colline che neppure ci provano dirsi montagne, spuntate e diseguali. Eppure occorre saperci salire su quel cielo a strisciate azzurre e bianche, dove non un colore ci sfuma. Ogni gradazione appare distinta, i profili tutti nettamente disegnati. Lassù i lecci nodosi e incavati ergono le chiome diradate delle ciocche cadute, in sussurrare di vento maestro che davvero pare la sfida a denti stretti mormorata a quel cielo tanto avaro di pioggia. Ma ciò che più colpisce inerpicandocisi, è l’inebriante profumo di macchia. Forte, acre direi, stordente al pari del fieno bagnato. Certi sbuffi paiono sniffate di tabacco bruciato, altri dolcissime turibolate di incenso. È dove la pietra si mostra in verde giacchino di muschio, passandoci il rio Cardàxu, serpeggiante sotto le feltri su cui ci tremolano le gocce di brina. Scintillano bizzarre e sfuggenti, manco fossero di bronzo. Diadema fermo sul capo, l’orizzonte sta tutto là dietro. Pare caduto dall’alto dell’immenso al pari della luce rossa che rilascia penombre chiare, quasi bianche.

Da quelle parti, che ancora integro arrotondava il nuraghe Cùccuru Turri, stendeva vasti pascoli di pecore tziu Angionèddu. Così de dìciu in quanto capace di azzeccare al grammo il diverso peso dei due agnelli tenuti alti, uno per braccio. Da non discuterci po’ Pasca Manna mai nessuno, integro nel cuore alla pari del corpo.

Peccato la moglie gli avesse partorito il maschio talmente de sbièsciu che sicuro gli aveva cantato il malocchio una bruscia. Che diverso da lui e dai pastori tutti, in agio nella solitudine dei pascoli, temeva i notturni rumori da farsela sotto nel pinnèto, sbiancato de timodìa. Di tanto, benché il suo nome fosse Cenzo, tutti lo motteggiavano Pìsciapìscia.

Si era provato a comprenderlo, tziu Angionèddu, prima di bastonarlo. Ma né busse né moine avevano sortito effetto alcuno, da non sapere a quale santo votarsi. Soltanto sapeva che ad affidargli la notte l’ovile, il gregge numeroso striminziva di una pecora. Oltre alla vergogna, che perfino i più piccoli lo canzonavano quel figlio cinixàu de infèrru.

«Pìsciapìscia!» discolavano al suo apparire.

Che andandogli bene, gli fiondavano tappi invece che sassi. «Pìsciapìscia! Pìsciapìscia

E peggio di ogni peggio non li menava, che anche di quelli aveva paura. Bàis a ddu scit di cosa non ne aveva, anche se il suo tormento vero erano i fantasmi. Perciò mai la notte usciva dal pinnèto. «Mèllus una brebèi de mancu e una di’ de prus!» giustificava.

De pònit tziu Angionèddu manu a buciàca e prendersi a nottata un servo pastore. Che a quell’impiastro, ogni luccichio o verso de strìa seguitava a vederli anime dannate venute a portarselo via.

«Chi ddu pìghit su buggìnu!» giunse ad augurarsi suo padre.

Come dargli torto. Saputo in paese per essere un uomo, non stipava che farne de cussu fillu murrungiàu, incarnante vana speranza di incatenarla quella cagna di vecchiaia che già gli mordeva alle caviglie. E neppure un capretto poteva invece affidargli. Ma giacché anche all’osteria della vita le sventure affèxano in coppia, pure i Serrentesi ci si misero.

 
Fine primo episodio

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata

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