Le tre sorelle

 

Cogliendone l’intimo tormento, di cui mai in tutta una vita insieme aveva avuto sentore, Rosa anticipò lo spuntare di luna e di stelle per mandare i ragazzi dritti a letto. Quindi gli sedette di fronte, e il suo sguardo languido affondava il cuore di Brutzu comènti sa lepa in s’arrescòtu.

«Quali tristi pensieri?» sussurrò come carezzandolo.

Brutzu titubava, parendogli di sentirla l’anima del bosco.

«Guardati di rivelare ad alcuno quanto hai veduto. Non al padre e né alla madre, neppure alla sposa che sta per giungere!»

Certo non mentiva la celeste messaggera, perché la sposa - amatissima - davvero era giunta. Ma pure pensava di averla bastantemente onorata la sua promessa, preservando finora il segreto. Pertanto sull’insistenza della sposa vuotò d’un fiato il cuore uguale al bicchiere della staffa.

Ma Rosa si alzò in uno scatto come di molla liberata, facendogli sollevare attonito gli occhi fino a un attimo prima sollevati anche di cuore.

«Perché lo hai fatto?» gridò, mutando voce.

Brutzu giusto appena le vide il volto illuminarsi di luce potente, prima che prendesse a mulinare un vortice biancoverde, impasto di neve e di foglie.

«Tui, ses!» inorridì.

Neppure il tempo del segno di croce, che quello cessò di roteare per farsi figura di donna. Bellissima, avvolta di una lunga veste bianca. Ai capelli e ai polsi e alle caviglie altrettanto lunghi nastri verdi. Gli stava ora davanti sospesa sul terreno, gli occhi più gelidi del vento Maestro.

«Come hai potuto, Brutzu?» disse di voce severa e dolce a un tempo.

Lui ebbe stavolta parole di acquazzone asciugato.

«Femmina ti ho avuta e fìllus dexi mi ‘nd’has donàu, mancài borèndi imòi che stria murrungiòsa. Fàis su chi dèpis, chi su miu deu d’hapu giai fatu, de coru lìmpiu e passu derètu

Non se l’aspettava, Rosa, che comunque tenne il punto.

«Non solo hai distrutto la tua felicità, ma la mia, financo!»

E non si accorgeva che in lei la donna disperava, mica l’anima eterea del bosco sacro di Collìnas.

«Giovane bello e puro ti ho visto quella sera - seguitò - indifeso e spaurito davanti a me, che ho sentito il desiderio di assaporarla anche io la felicità degli uomini invece di distruggerla, come sempre. Sì, ti ho amato da quel primo momento e ho domandato di viverti moglie felice, quale sono stata ognuno di questi lunghi anni. Ora dovrò tornare al mio freddo regno!»

E non si accorgeva che la spossa piangeva, mica la messaggera del cielo.

«Chi de mi fai morri est su dovèri cosa tua - la serrò Brutzu del suo solito essere praticone - is fuèddus funti arrètzas sentz’ ‘e pisci

Al che pure lui si alzò, voltandole le spalle verso s’aposèntu.

«Dove vai?»

«A mi crocài

«Come osi?»

Brutzu non intendeva di starla a sentire. Raggiunse il lettone e ci si stese supino, fermo e diritto quasi già fosse quello di morte.

Qui la leggenda tace. Solo a Villanovaforru ancora i più vecchi raccontano che gli anni di Brutzu si contarono a tre cifre. E felici, in compagnia della sposa amata. Non più rosa di marzo in freschi e affrescati petali rossi, ma alla fine invecchiata. Di quella stessa umana sorte che dello sposo aveva voluto condividere.

Forse la Madonna bambina si era fatta donna pure lei, e sciolto aveva la messaggera del suo incarnare l’anima del proprio bosco sacro, a Collìnas. Quello cui la storia ancora rende nome di Santa Maria di Angiàrgia.


Fine

Ignazio Pepicelli Sanna © Riproduzione riservata

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